Isabella Votino
Il calcio secondo Leonardo
Educare i ragazzi ai valori dello sport contro la violenza negli stadi. La ricetta dell’ex campione brasiliano protagonista non solo sui campi di pallone, ma anche nella vita
Ancora due settimane e il campionato di calcio andrà in soffitta; un torneo che sarà ricordato soprattutto per l’esordio della figura degli steward (ufficialmente apparsi negli stadi italiani dal 1° marzo 2008) e della cosiddetta “tessera del tifoso” (una specie di “Telepass”, rilasciato dalle società calcistiche ai propri supporter “doc” per un accesso controllato e facilitato ai tornelli degli impianti sportivi). Due cardini dei nuovi modelli organizzativi delle competizioni calcistiche messe a punto dall’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive del Dipartimento della pubblica sicurezza per superare il clima di violenza che avvelena il calcio e per avviare una vera e propria svolta culturale che consenta alle famiglie e alle tifoserie sane di riappropriarsi degli spazi all’interno degli stadi. Di queste novità, dell’importanza di educare i ragazzi ai valori dello sport e di altro ancora abbiamo parlato con un personaggio che i campi di calcio li conosce bene, uno che al pallone, come si dice in questi casi, gli ha sempre dato del “tu”.
In Italia da dodici anni. Prima da calciatore, oggi da dirigente. Sempre in casa milanista. Leonardo Nascimiento de Araùjo, origine brasiliana e cittadinanza italiana, conosce bene il nostro calcio e di episodi di violenza ne ha visti in questi anni. L’ultimo in ordine di tempo allo stadio San Paolo, in occasione della partita Napoli-Milan, dove pseudo tifosi partenopei hanno preso d’assalto la vettura su cui viaggiava l’amministratore delegato rossonero, Adriano Galliani. C’era anche lui, che di Galliani è considerato un po’ il braccio destro…
La violenza negli stadi non è solo una questione di ordine pubblico. Per Leonardo è soprattutto un problema culturale, che riguarda in primo luogo i più giovani. Per questo propone che i valori positivi dello sport siano insegnati a scuola: «Bisogna investire in educazione e formazione, perché non è il calcio a provocare la violenza, sono le persone ad essere violente».
D’accordo. Ma non può negare che il fenomeno esista.
Io non credo che la violenza riguardi solo il calcio, ma l’intera società. Ogni giorno, leggendo la cronaca, ce ne rendiamo conto: ci sono le rapine, gli stupri, c’è la guerra, eccetera. La violenza purtroppo esiste da che mondo è mondo e riguarda pure il calcio che è diventato nel corso del tempo sempre di più lo specchio di ciò che avviene anche fuori dal rettangolo di gioco.
Come si risolve il problema ammesso che una soluzione esista?
Secondo me siamo di fronte ad un problema di tipo culturale, che può essere risolto solo attraverso un processo di formazione. E poiché sono soprattutto i più giovani a rendersi responsabili di certe azioni è a scuola che bisognerebbe insegnare loro che il calcio non è questione di vita o di morte. Che si va allo stadio per fare amicizia, non per litigare. Che la passione e la competizione tra una squadra e un’altra non devono trasformarsi in violenza. Ai ragazzi bisognerebbe insegnare, come si fa con la matematica, l’attività fisica, l’inglese, l’educazione allo sport. Ciò che impedisce di rubare in casa non è solo un portone. Non sarà certo quello a fermarti. È l’educazione, appunto.
C’è chi punta il dito contro la moda degli allenamenti a porte chiuse, sostenendo che la violenza è anche figlia dell’assurdo isolamento delle squadre dai veri tifosi.
Gli allenamenti a porte chiuse si sono resi necessari non tanto per tenere lontano i tifosi, quanto per evitare che la stampa trasformi ogni allenamento in un evento.
L’ultimo episodio di violenza si è consumato a Napoli proprio ai danni di Adriano Galliani assalito all’uscita dallo stadio…
A Napoli quando le squadre entrano in campo è come se esplodesse una pentola a pressione. La tensione prima della partita è altissima. All’arrivo del pullman una parte della tifoseria è già lì pronta ad insultarti, a tirarti pomodori e arance e la polizia è costretta a scortarti. Un comportamento che sembra quasi normale. Come se in quella città tutto fosse concesso e dove diventa faticoso anche far rispettare le regole. È una situazione che certamente mette un po’ di apprensione.
Succede solo a Napoli?
No, ma succede più al Sud che al Nord. Sarà che i tifosi meridionali sono più passionali… (sorride Leonardo, ndr).
Il Milan è il primo club ad avere aderito al programma “tessera del tifoso”. Può essere questa una soluzione per lasciare i “cattivi” fuori dagli stadi?
La tessera del tifoso è certamente uno strumento utile sia alle società di calcio che alla polizia perché consente di sapere chi entra allo stadio. In Inghilterra ad esempio funziona bene perché è stato un modo per responsabilizzare i tifosi, che sanno di essere identificati e ci pensano due volte prima di commettere un atto di violenza. Ma è evidente che la tessera non può impedire l’assalto alla macchina di un dirigente fuori dallo stadio, che si porti un motorino all’interno di uno stadio e lo si butti giù dagli spalti, o che vengano distrutti i treni. Così come è evidente che la tessera del tifoso non può sostituirsi alla certezza della pena o ai controlli all’ingresso dello stadio. Anche chi commette una rapina in banca ha la carta d’identità, ma non basta certo questo a fermarlo.
Finora abbiamo parlato dei tifosi. Parliamo ora dei calciatori e del ruolo che essi hanno nella società. A leggere i rotocalchi la loro vita appare piuttosto distante da quella della gente comune. In realtà molti sono impegnati nel sociale. Il Milan attraverso la sua Fondazione, di cui lei è segretario generale, promuove iniziative di solidarietà in tutto il mondo.
La carriera di un calciatore è molto breve e intensa. E non sempre è così facile, come sembra, gestirla. L’impegno, sia sul piano fisico che mentale, è enorme e questo spesso ti costringe a rinunciare a molte cose. Quando si approda poi in società importanti come il Milan, allenati da tecnici di spessore internazionale, subisci una pressione fortissima dei media, spesso interessati anche alla tua vita privata. Se non sei bravo a comunicare quello che provi, rischi di trasmettere all’esterno un’idea distorta. I calciatori, soprattutto quelli stranieri, spesso hanno avuto un’infanzia problematica e conoscono bene cosa è la difficoltà.
È questo secondo lei che li spinge all’impegno sociale?
Certo, ma è un’esigenza che nasce anche dalla consapevolezza del proprio ruolo nella società. Il calcio in generale ed i calciatori in particolare hanno la straordinaria funzione di unire le persone, ma producono anche denaro. Intorno a un giocatore si crea una struttura professionale che può essere paragonata a una piccola impresa. È giusto, pertanto, che dia il suo contributo alla società attraverso persone, organizzazioni o fondazioni. La Fondazione Milan nasce un po’ da tutto questo: dalla coscienza di un Club che produce gloria, emozioni, ma anche soldi. Grazie al contributo di vari sponsor abbiamo realizzato progetti in tutto il mondo a sostegno dell’infanzia disagiata e delle persone in difficoltà.
Qual è l’esperienza vissuta con la Fondazione Milan che le ha lasciato un ricordo speciale?
Il viaggio a Nazareth, in Israele, per la posa della prima pietra di un nuovo reparto dell’ospedale Holy Family. Un luogo di autentica convivenza e collaborazione fra il personale medico e non, di religione cristiana, musulmana, ebraica e drusa. In una terra apparentemente dominata da divisione e violenza, questa struttura accoglie pazienti di ogni religione e nazionalità in piena armonia. È una realtà unica al mondo.