Annalisa Bucchieri

Dolore e coraggio

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Nella tragica notte che ha spazzato via il paesino di Onna, la storia di due poliziotti, marito e moglie, che si sono prodigati nel soccorrere i vicini sepolti dalle macerie

La terra d’Abruzzo ha iniziato a tremare alle 3,32 del 6 aprile e l’onda di sofferenza umana che ha provocato non smette ancora di propagarsi. Un terremoto, come ogni tragedia corale, è fatto di tante storie individuali, storie di perdite irrevocabili, di futuri infranti, ma anche di istintivo coraggio e generosità. Ed è una storia di piccoli miracoli fatti a mani nude, una storia di audace altruismo, tra le tante che forse non sapremo mai, che abbiamo scelto di raccontare.
Sul cumulo di macerie che una volta era la cosiddetta casa della fontana di Onna i cinofili dei Vigili del Fuoco stanno cercando con i cani una traccia di vita. È tanto che gli animali insistono su un punto. Così viene fatta avvicinare la ruspa per scavare proprio lì. L’angolo delle operazioni è pieno di cineoperatori di televisioni nazionali e straniere che riprendono in diretta i soccorsi. Sono passate solo 36 ore dalla prima tremenda scossa e il mondo dei media si è precipitato ad Onna, paesino dell’aquilano di 400 anime, epicentro della catastrofe, il più colpito dalla disgrazia e dalla morte. Sono le tredici di martedì, il caldo è cocente. I giornalisti si agitano quasi quanto i soccorritori, cercano notizie, campo per il cellulare, bottigliette d’acqua.
Solo lei non ha mai lasciato il posto da ore. In piedi sotto il sole, nella sua divisa impeccabile nonostante le nuvole di polvere intorno, dà informazioni, rassicura chi si avvicina. Ma gli occhi sono arrossati da ore senza sonno e le lacrime li riempiono nonostante non voglia.
Non vuole perché lei, Concetta De Angelis, è una poliziotta e tra i suoi compiti c’è quello di trasmettere sicurezza, lucidità e controllo della situazione. Difficile riuscirci quando a ridursi in un mucchio di calcinacci e sangue è il tuo paese, quello nel quale vivi con tuo marito e due dei tuoi tre figli. Concetta lavora in questura a L’Aquila da 9 anni e percorre ogni giorno avanti e indietro i sei chilometri che separano la sua casa in campagna ad Onna dal capoluogo insieme al marito, Giuseppe Pifano per tutti “Pino”, anche lui poliziotto, artificiere antisabotatore vicino alla pensione. Si sono conosciuti e innamorati nel 1978 che portavano entrambi la divisa e hanno “tramandato” il mestiere al figlio più grande, Gaetano, il quale è arrivato da Firenze, dove presta servizio, appena ha saputo del terremoto. Gaetano quindi non c’era quella fatidica notte, ma i fratelli Stefano e Patrizio, rispettivamente 24 e 20 anni, erano in casa con i genitori.
Racconta Concetta che dopo la scossa sono scappati tutti all’aperto e hanno aiutato Pifano a sfondare una porta e trascinare via marito e moglie del casolare vicino. Poi di corsa alle palazzine basse di Onna, quelle più vecchie e malmesse.
Come in ogni paese italiano anche qui tutti conoscono tutti, sanno a che numero civico abitano perfino dove stanno le camere da letto. Pino, Stefano e Patrizio sapevano, perciò, mentre salivano quello che rimaneva del piano superiore della prima casa incontrata sulla strada, che là sopra ci doveva essere il nonno dei loro vicini di casolare. E l’hanno portato giù vivo prima che le scale di casa si accartocciassero su se stesse. Da lì senza sosta sono passati da un posto all’altro. A continuare il racconto ora è il marito di Concetta, Pino, di ritorno dall’ospedale dove si è fatto medicare la ferita ad una gamba procuratasi la notte del terremoto. Non se ne era accorto, non le aveva dato importanza. L’adrenalina in questi casi è un potente anestetico. Indossa comunque la divisa: sono ore che non riposa e certo le energie sono al minimo, la ferita alla gamba lo fa zoppicare, ma lui vuole essere ancora in servizio. «Tra i palazzi crollati si sentiva ovunque il sibilo delle bombole del gas – ricorda Pino, mentre mostra i luoghi del dramma vissuto in prima persona – ma a sovrastarlo c’erano le grida della signora Giuseppina. Per fortuna il materasso su cui dormiva si era ribaltato su di lei facendole da scudo, l’abbiamo tolta da lì. Avevamo appena finito con lei che suo figlio, rimasto incastrato con una gamba rotta sotto una trave al primo piano, ci prega urlando di salvarlo. Lo abbiamo liberato scavando a mani nude, tra cavi elettrici ancora attraversati dalla corrente, vetri rotti, pezzi di ferro. Per trasportarlo abbiamo utilizzato una porta come barella. Alla fine è stata la volta del marito di Giuseppina, non riusciva a chiedere aiuto perché era in stato di semi incoscienza. L’ultima persona che siamo riusciti a tirar fuori viva è stata la moglie di Antonio, un nostro amico falegname; si è salvata protetta dal materasso anche lei, ma per i figli e il marito non c’è stato niente da fare». Pino prende fiato, parla in maniera più faticosa, più cupa, passando al tempo presente come se quelle ultime scene le avesse ancora lì davanti agli occhi. «Inizia ad albeggiare. Verso le sette del mattino arrivano i Vigili del Fuoco. Continueranno loro i soccorsi, con mezzi più idonei. Insieme a Patrizio e Stefano decidiamo allora di fare un ultimo tentativo disperato andando in piazzetta dove abita una famiglia di nostri amici, Tonino con la moglie e il figlioletto di 6 mesi. Scaviamo in affanno e troviamo lui che in un disperato abbraccio tenta di fare scudo con il corpo alla compagna e al bimbo, ma inutilmente. Tutti e tre erano già spirati». Nelle parole di Pino c’è la rabbia di chi, se avesse avuto almeno un po’ più di luce e una pala, forse avrebbe potuto salvarne di più; c’è il dolore per non essere arrivato in tempo dappertutto a tirar fuori quelli che erano sopravvissuti ai crolli; c’è l’umiltà di chi non si rende conto di aver già compiuto, a rischio della propria incolumità, un miracolo per quella manciata di vite sottratte alla morte.
Se, come dicono le parole epiche di Omero, le imprese migliori sono quelle che si compiono con le mani, le mani nude di Pino e dei suoi figli che scavano nelle macerie, in una corsa contro il tempo per estrarre corpi martoriati, sono state una piccola grande impresa di coraggio e altruismo, gli unici veri antidoti alla disperazione e alla tragedia.

 

Da sempre presenti
“Vicini ai più deboli. Da sempre”. È il novembre del 2002 ed è questo il titolo dell’editoriale che compare sul numero di Poliziamoderna di quel mese. Da pochi giorni il terremoto è tornato a martoriare l’Italia e il 31 ottobre alle 11,32 ha colpito il Molise: a San Giuliano di Puglia (Campobasso) crolla la scuola elementare e una maestra e i suoi 27 scolari restano sotto le macerie. Il delicato recupero di quei corpicini risulterà, alla fine, un dramma nazionale. Ancora una volta, le immagini dei soccorsi fissano nella memoria le uniformi degli uomini e delle donne della Polizia di Stato. Una, due, cento, mille scene di terremoti, frane, valanghe, alluvioni che tante volte hanno colpito la Penisola: milioni di istantanee che documentano, da una parte, le rovine, la desolazione, la disperazione negli occhi dei sopravvissuti e, dall’altra, la determinazione, il coraggio, la professionalità dei soccorritori. Poliziotti, militari, vigili del fuoco, volontari. Notava allora Poliziamoderna: «Cambiano le divise, le foto a colori sostituiscono il bianco e nero, ma l’immagine è la stessa: si scava in una disperata lotta contro il tempo per salvare chi è rimasto imprigionato tra pietre e cemento, guadagnandosi sul campo la gratitudine della popolazione e l’apprezzamento del ministro dell’Interno». E concludeva: «C’è un filo che lega quelle immagini: la Polizia di Stato vicina alla gente, parte integrante della società, in soccorso dei più deboli. Sempre». È vero. È proprio così. Sette anni dopo la tragedia del Molise siamo costretti ora a ripubblicare foto del Belice (1968), di Tuscania (1971), dell’Irpinia (1980), del terremoto in Umbria e Marche (1997), per ricollegare idealmente, in una sorta di memoria collettiva intessuta di dolore e coraggio, tutte le volte che i poliziotti sono scesi in campo per dare una mano vera, pulita e amica, a chi si aspettava aiuto. È successo, puntualmente, anche a L’Aquila, dopo la maledetta notte di distruzione e morte del 5-6 aprile. Centinaia di operatori e specialisti, con mezzi e tecnologie avanzate, hanno dato, senza risparmiarsi, il loro contributo alla grande opera dei soccorsi, coordinata e diretta dalla Protezione civile. Ma quante volte la polizia è dovuta intervenire nelle grandi tragedie, dalla sua costituzione? Tenendo conto solo dei grandi terremoti degli ultimi 150 anni, almeno 5 volte nell’Ottocento, più di 30 volte nel Novecento e già ben 13 volte in questo tormentato XXI secolo. Le date più tragiche? Messina, 1908 (130mila morti); Avezzano, 1915 (30mila); Vulture, 1930 (1.425); Friuli, 1976 (1.000 vittime); Irpinia, 1980 (3.000 morti). Dall’immane catastrofe che colpì a fine millennio la Campania, l’Italia ha già dovuto subire un’altra ventina di drammatici terremoti. E lì, dappertutto e sempre, la Polizia di Stato c’era.



 

01/05/2009