Antonio Marra*

A carte scoperte

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La trasparenza degli atti amministrativi, tra diritto di accesso e tutela della privacy

1. Principio di trasparenza e finalità dell’accesso
La trasparenza è un principio generale che informa l’intera attività amministrativa.
È stato frutto di studi dottrinali e giurisprudenziali l’elaborazione del canone di trasparenza, tramite la compiuta analisi del tessuto normativo complessivamente disciplinante l’attività dei pubblici poteri in Italia, distinguendolo dai già noti principi di legalità, imparzialità e buona amministrazione, espressamente previsti nell’art. 97 della Costituzione, e conferendogli una propria autonoma dignità giuridica.
Secondo l’affermazione più ricorrente, tale principio si concretizzerebbe nell’attribuzione ai cittadini del potere di esercitare un controllo democratico sullo svolgimento dell’azione amministrativa, allo scopo di accertarne la conformità sia agli interessi pubblici alla cui cura tale azione è preordinata, sia ai precetti normativi che regolano quest’ultima.
La definitiva consacrazione del predetto principio – la cui esistenza già si desumeva per implicito, da alcune precedenti norme di legge, quali, ad esempio, l’art. 26 l. 816/85 (che sanciva il diritto dei cittadini di prendere visione degli atti comunali) e l’art. 14 l. 349/86 (sul diritto di accesso agli atti contenenti dati ambientali) – si è avuta con l’entrata in vigore della legge 7 agosto 1990, n. 241 sulla cosiddetta “trasparenza amministrativa”.
Per la prima volta, infatti, il legislatore, ha disciplinato in via generale ed astratta qualunque tipologia di procedimento amministrativo avviato da un ente pubblico e ha introdotto tra i principi generali dell’azione amministrativa, quello di pubblicità.
Al riguardo è opportuno rimarcare che la trasparenza, nel senso sopra specificato, non si assicura solo mediante lo strumento dell’accesso, ma al suo raggiungimento concorrono numerosi altri principi e istituti, quali – ad esempio – l’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi (stabilito dall’art. 3 l. 241/90), e la partecipazione dei privati al procedimento che li coinvolge (artt. 7, 13 legge cit.).
In linea di principio, l’art. 10 del dlgs 267/2000 e gli artt. 22 e ss. della l. 241/90 riconoscono il diritto di accesso ai documenti amministrativi a tutti i soggetti titolari di una situazione giuridicamente rilevante. Lo stesso art. 22 della l. 241/90 individua poi un concetto ampio di documento amministrativo, comprensivo degli atti provenienti da soggetti diversi dalla stessa amministrazione.
Il significato delle disposizioni sopra citate è chiaro: la l. 241/90 ha ridimensionato l’ambito operativo del segreto d’ufficio che ora non esprime più un canone generale dell’azione dei pubblici poteri, ma rappresenta un’eccezione al principio di trasparenza, rigorosamente circoscritta ai soli casi in cui viene in evidenza la necessità obiettiva di tutelare particolari e delicati settori dell’amministrazione.
In passato, la pubblica amministrazione invocava costantemente l’art. 15 del dpr 10 gennaio 1957 n. 3, ai sensi del quale all’impiegato pubblico era precluso fornire a chi non ne avesse diritto “… informazioni o comunicazioni relative a provvedimenti o operazioni amministrative di qualsiasi natura e notizie delle quali sia venuto a conoscenza a causa del suo ufficio, quando possa derivarne danno per l’amministrazione o per i terzi”. Il vago timore di recare un pregiudizio all’amministrazione finiva, nella pratica, per favorire un’applicazione estensiva della disposizione.
Oggi, l’art. 28 della l. 241/90 ha invertito il rapporto regola-eccezione, confinando il segreto d’ufficio entro ambiti alquanto circoscritti e in particolare limitandolo ai soli casi espressamente indicati dalla normativa sull’accesso.
Il fondamento costituzionale del diritto di accesso è stato individuato sia nell’art. 97 – che costituisce diretta attuazione dei canoni di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione – sia nell’art. 21, che riconosce il diritto all’informazione sul versante passivo e cioè il diritto ad essere informati quali potenziali destinatari.
L’istituto dell’accesso assolve a una triplice funzione:
permette una più diffusa conoscenza dei processi decisionali, nell’ottica della partecipazione;
favorisce il coinvolgimento diretto degli amministrati e il loro controllo sul comportamento dei soggetti pubblici, che sono stimolati ad agire responsabilmente e correttamente osservando i canoni di legalità e compiendo attività qualitativamente migliori;
riduce il peso dei giudizi, perché la conoscenza dei documenti può persuadere della legittimità delle determinazioni assunte dalla pubblica amministrazione o comunque dell’inopportunità dell’impugnazione, tenuto conto che l’interessato potrà far valere in sede amministrativa eventuali rimostranze.

2. Natura giuridica del diritto di accesso
(legge 11 febbraio 2005, n. 15)
La valorizzazione del diritto di accesso come principio generale dell’ordinamento ha posto il problema della sua riconduzione nell’alveo dei diritti soggettivi ovvero degli interessi legittimi.
Secondo un primo orientamento la pretesa del soggetto che aspira all’esibizione del documento amministrativo sarebbe qualificabile come mero interesse legittimo pretensivo (cfr Tar Toscana, sez. I, 23 aprile 2004 n. 1225; Consiglio di Stato, adunanza plenaria del 24 giugno 1999, n. 16), in virtù delle seguenti considerazioni:
l’amministrazione può rinviare l’esercizio dell’accesso se lo stesso pregiudichi la funzione pubblica (art. 24 comma 4 l. 241/90 vigente), e ciò presuppone il riconoscimento di una potestà discrezionale, la cui funzione è evitare che l’accesso indiscriminato incida su interessi pubblici fondamentali e preminenti o su interessi di terzi, ovvero interferisca con la speditezza dell’azione amministrativa; è noto viceversa che, in materia di rapporti patrimoniali coinvolgenti diritti, il debitore non può lecitamente rinviare l’adempimento dell’obbligo al di là dei termini stabiliti dalla legge o dal contratto;
si tratta di un’azione di impugnazione di un provvedimento autoritativo di diniego (ovvero dell’inerzia) della pubblica amministrazione, nell’ambito della struttura tipica del processo amministrativo preordinato alla tutela di interessi legittimi;
il conflitto tra il diritto di accesso e la tutela della riservatezza dei terzi necessita di una composizione bilanciata: la decisione sull’istanza implica quindi una scelta parzialmente discrezionale che i regolamenti attuativi adottati dai singoli enti limitano ma non escludono;
l’art. 25 comma 5 della l. 241/90 impone per il ricorso per l’accesso in pendenza di giudizio l’obbligo di notifica all’amministrazione o ai controinteressati, con ciò confermando la natura di interesse legittimo.
Dalla configurazione dell’accesso come interesse legittimo pretensivo, consegue:
il carattere impugnatorio del giudizio di legittimità che si svolge dinanzi al giudice amministrativo, il cui oggetto è costituito dal provvedimento espresso o tacito di rifiuto;
la necessità di impugnare la decisione negativa nel termine perentorio di 30 giorni, a pena di decadenza;
l’obbligo di notifica agli eventuali controinteressati (ad esempio ai soggetti titolari del diritto alla riservatezza suscettibile di lesione) a pena di inammissibilità del ricorso giurisdizionale;
la declaratoria di inammissibilità del ricorso proposto contro un nuovo diniego su una seconda richiesta di accesso identica alla precedente quanto ad oggetto, avendo il secondo rifiuto natura di atto meramente confermativo.
Il filone interpretativo che propende per una ricostruzione dell’accesso in termini di diritto soggettivo è oggi prevalente in giurisprudenza (Tar Lazio, sez. I del 4 marzo 2004 n. 2079; Consiglio di Stato, sez. VI del 27 maggio 2003 n. 2938), la quale riconosce in esso la pretesa a un’informazione qualificata, azionabile da qualsiasi soggetto titolare di un’aspirazione giuridicamente rilevante alla conoscenza di determinati atti, e tutelabile innanzi al giudice amministrativo indipendentemente dalla ricorrenza della posizione sostanziale di diritto soggettivo o di interesse legittimo (si parla di autonomia dell’accesso rispetto alle situazioni soggettive sostanziali sottostanti, di cui il soggetto può chiedere la tutela dopo l’ostensione dei documenti).
Dalla configurazione dell’accesso come diritto soggettivo, consegue:
la natura di accertamento del giudizio sulla domanda di accesso, che non si limita ad investire l’atto di diniego ma si estende all’intero rapporto tra pubblica amministrazione e privato;
la possibilità per il giudice di ordinare l’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 102 cpc in caso di omessa notifica ad almeno uno dei controinteressati, trattandosi di un’ipotesi di litisconsorzio necessario;
la possibilità di presentare una nuova istanza nonostante l’omessa tempestiva impugnazione del diniego (o del silenzio della pubblica amministrazione) su quella precedente, in quanto un diritto non è soggetto al breve termine di decadenza.
La l. 15/2005 sostituisce la precedente versione dell’art. 22 con una nuova previsione il cui contenuto è in gran parte costituito da regole codificate dalla giurisprudenza.
Il nuovo articolo 22, così come riformulato, impiega la tecnica legislativa – già largamente diffusa in ambito comunitario e recentemente utilizzata anche da parte del legislatore italiano – delle definizioni: queste ultime, in particolare, hanno carattere innovativo e non ricognitivo, non limitandosi cioè ad operare un riepilogo di precetti altrove stabiliti ma introducendo ex novo norme di carattere sostanziale.
Rispetto alla questione della natura del diritto di accesso, secondo quanto recita il secondo comma dell’articolo 22, “attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza, ed attiene ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione”.
A fronte delle dispute emerse in giurisprudenza sulla qualificazione della posizione giuridica soggettiva del richiedente il legislatore sembra aver optato per una qualificazione in termini di diritto soggettivo. Tale affermazione appare supportata dalla circostanza che, ai sensi dell’articolo 22, l’istituto dell’accesso attiene ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che costituiscono un patrimonio giuridico intangibile, non esposto a esercizio di discrezionalità amministrativa.
In proposito soccorre l’interpretazione fornita dalla Corte costituzionale con la pronuncia in data 26 giugno 2002 n. 282, la quale ha chiarito che quella individuata dalla lettera m) dell’art. 117, comma 2 non è una “materia” in senso stretto, bensì “una competenza del legislatore statale idonea a investire tutte le materie, rispetto alle quali il legislatore stesso deve poter porre le norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali diritti…”.
Sempre in tale direzione, d’altra parte, non manca un ulteriore indice di inequivoco affidamento. Lo si rinviene nel comma 7 dell’art. 24 che stabilisce la necessità di garantire l’accesso ai documenti la cui conoscenza è necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici. Quel “deve comunque esser garantito” non appare conciliabile con una posizione di interesse legittimo ed induce a ritenere che ogni pur complessa attività applicativa non potrà mai smarrire la sua natura di attività meramente dichiarativa della sussistenza di presupposti e condizioni normative in costanza delle quali il diritto di accesso trova attuazione.

3. Ambito soggettivo di applicazione
Dal punto di vista soggettivo, dal lato attivo si pone il problema di chi possa chiedere l’accesso.
L’art. 24 della l. 241/90 prevedeva che l’accesso è consentito a chiunque (cittadino, straniero od apolide) sia titolare di un “interesse giuridicamente rilevante”: il concetto rinvia ad una qualsiasi situazione giuridica degna di rilievo ed apprezzamento, ossia comprende una platea di posizioni eterogenee meritevoli di protezione, come anche ad esempio le aspettative e gli interessi diffusi.
Ai fini dell’esatta delimitazione della figura, è stato puntualizzato dalla giurisprudenza che la l. 241/90 non ha introdotto un’azione popolare, diretta a consentire a chiunque una sorta di controllo generalizzato sulla correttezza dell’attività amministrativa: infatti sia l’art. 8 del dpr 27 giugno 1992 n. 352 (regolamento di attuazione della disciplina legislativa dell’accesso), sia la dottrina e la giurisprudenza richiedono la presenza di un interesse:
personale (ovvero serio, effettivo, non emulativo, non riducibile a mera curiosità e ricollegabile all’istante da uno specifico nesso);
concreto;
differenziato (ossia non confuso con quello di altri soggetti o con l’interesse pubblico istituzionalmente perseguito dall’amministrazione).
Tale interesse non coincide necessariamente con l’interesse legittimo: l’esercizio del diritto di accesso presuppone un’aspirazione alla conoscenza del documento non necessariamente idonea a legittimare l’impugnativa in sede giurisdizionale del provvedimento finale.
Particolari figure sono l’accesso partecipativo, previsto dall’articolo 9 della l. 241/90 e l’accesso agli atti in corso di giudizio previsto dall’art. 21 comma 1 della l. 1034/1971.
Quest’ultimo è un rimedio che presuppone l’instaurazione di un giudizio, ossia un ricorso pendente innanzi al giudice amministrativo: il gravame contro il diniego o il differimento dell’accesso può essere proposto con semplice istanza presentata al presidente del Tar e depositata presso la segreteria della sezione cui è assegnato il ricorso, previa notifica all’amministrazione ed ai controinteressati, e viene decisa con ordinanza istruttoria adottata in camera di consiglio.
La l. 15/20

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01/04/2009