Annalisa Bucchieri

L’impegno di Alessio

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Diretto da grandi registi, ha interpretato i personaggi più disparati con temperamento e bravura. Boni parla del mestiere di attore, del suo ruolo di ambasciatore Unicef e del suo breve passato da poliziotto

Alessio Boni è indiscutibilmente bello. Ma non solo. Se Giorgio Strehler gli affidò il ruolo di Clevante nella sua regia-testamento, l’Avaro di Molière, e Ronconi lo ha richiesto per l’opera Lodoiska diretta da Riccardo Muti, se lo hanno voluto nel cast la Cavani e Lizzani, per citare solo alcuni dei grandi registi con cui ha lavorato, vuol dire che dietro il volto affascinante, conosciuto dal grande pubblico per la fictionTv Incantesimo, c’è un gran talento e un’ottima preparazione. Boni, infatti, ha conosciuto gli anni duri dello studio all’Accademia Silvio D’Amico e quelli della gavetta, prima di raggiungere il successo, calcando sempre la strada più lontana dal divismo.
In questo momento è Alain, un arrogante, squaliforme avvocato parigino costretto dalla moglie ad incontrare i genitori del ragazzino che il loro figlio ha malmenato a scuola. Lo scopo: una riconciliazione civile che mai avverrà, come suggerisce il titolo della commedia scritta da Yasmina Reza, Il dio della carneficina (in tournée in 23 città italiane per la regia di Roberto Andò). L’aggressivo, egoista e amorale Alain è l’esatto opposto di Alessio che crede nella forza del dialogo, sogna di coltivare la terra nella sua casa di campagna in Toscana, è ambasciatore Unicef e prova un’intensa nostalgia per i valori di un tempo così lontani dal materialismo attuale. E mentre Alain sul palcoscenico dice: «La verità è che ci occupiamo tutti solo ed esclusivamente di noi stessi. Vorremmo credere in un miglioramento: ma è possibile?», dietro le quinte Alessio gli risponde: «Per fortuna un Obama è stato eletto».
È vero che abbiamo rischiato di incontrarla dietro la scrivania dell’ufficio denunce del commissariato o in servizio d’ordine allo stadio?
Ebbene sì! Ho svolto il servizio di leva in polizia a Milano nell’85-86, frequentando il 13° corso presso il Reparto mobile. Un anno e mezzo importante, durante il quale ho imparato rigore, puntualità, rispetto. Non era una cosa semplice per me che venivo dal mondo della scuola. Con alcuni ex compagni di corso che hanno proseguito la carriera da poliziotti sono rimasto in contatto. Quell’esperienza mi è servita tantissimo per lavorare in teatro, che è pieno di regole. Senza una ferrea disciplina e una grande forza di volontà non puoi calcare il palcoscenico: tutti i giorni devi fare esercizi mnemonici, vocali, di articolazione del corpo, allenare la resistenza fisica.
Quel periodo di corso le è stato utile per entrare meglio nel personaggio di Matteo Carati, il poliziotto de La meglio gioventù?
Senz’altro. A questo proposito c’è un aneddoto simpatico. Marco Tullio Giordana, il regista del film, tre giorni dopo avermi “provinato” mi telefona. «Pronto sono Giordana: per me tu sei Matteo Carati». Rimango senza parole per la contentezza. «Ma –continua lui – siccome ti voglio un poliziotto vero, devi andare subito dal maestro d’armi per imparare come maneggiare l’arma, indossare il basco, camminare con gli anfibi. Quindi iniziamo da domani a fare queste lezioni». «Guardi – ribatto – che io ho fatto un anno e mezzo in polizia presso il Reparto mobile». «Sei un genio!!». Da quel momento chiedevano tutto a me. Perché in effetti mi ricordavo perfettamente ogni particolare. Del resto arrivai primo al corso, premiato dal prefetto al giuramento: ho appeso con orgoglio l’encomio in camera.
Che tipo di persona è il poliziotto Matteo Carati?
È un uomo dotato di una sensibilità molto accentuata che non gli permette di sopportare il mondo che lo circonda, afflitto dalla “meccanicizzazione” delle anime. Quindi entra in polizia per difesa, cioè per avere delle regole da dover applicare, per obbedire ad ordini e decisioni impartiti da altri. E mentre si trasferisce per servizio di città in città si eclissa nella solitudine, finisce per chiudersi in un mondo tutto suo, fatto di letture poetiche. Il vulcano interiore che è in lui esplode nel gesto estremo del suicidio nel momento in cui capisce che la corazza che si è cucito addosso non gli permetterà mai di amare nessuno.
A fronte di un solo tutore della legge il suo curriculum artistico pullula di criminali. Nel film Arrivederci, amore ciao interpreta Giorgio, un terrorista, in Vite a perdere il malavitoso Pino “er fornaro”, in Senza paura uno dei rampolli della Roma bene che costituirono “la banda del taglierino”: è attirato dal lato oscuro dell’uomo?
Ho scelto questi ruoli perché contengono un messaggio di denuncia. Pondero bene prima di accettare una parte. Per esempio ho voluto essere quella carogna di Giorgio Pellegrino perché la sua storia, desunta dal bel libro di Massimo Carlotto, evidenzia un assurdo della giustizia italiana. Questo terrorista, che ha ucciso tredici persone, rientra in Italia dalla latitanza sudamericana e si mette d’accordo con un altro che sta già espiando sei ergastoli, il quale si accolla le sue colpe. A quel punto Pellegrino sconta solo due anni in carcere e poi, passati i cinque di riabilitazione, è pulito come un bebè. Nonostante continui ad uccidere la farà franca. È proprio la mancanza del lieto fine a lasciare inquieto lo spettatore e a indurlo a riflettere. Senza paura ripercorre la storia della “banda del taglierino”, che tra il 1991 ed il 1992 mise a segno oltre venti rapine ai danni di piccole filiali di banca della Capitale: con la cattura si scoprì che i membri erano “figli di papà”, cresciuti nelle belle case dei Parioli; rapinavano per sentirsi più vivi ed adrenalinici. Non pagarono per i loro reati perché il taglierino non era considerato “arma” ai fini dell’imputazione per rapina a mano armata; le amicizie influenti e le parcelle esorbitanti versate agli avvocati fecero il resto. Quei giovani rappresentano la violenza che scaturisce dalla noia esistenziale, dal vuoto di valori, dal gusto insano per l’esercizio del potere. Pino “er fornaro”, il personaggio di Vite a perdere, ispirato ai misfatti della banda della Magliana, è invece un ragazzo di borgata che trova nella malavita il riscatto alle sue origini disagiate. Ognuno di loro è un tipo di criminale diverso e in ognuno di loro ho cercato di veicolare attraverso l’azione sanguinaria un messaggio più profondo. Mi sono arrivati centinaia di copioni su storie criminali che ho scartato perché lì c’era solo il compiacimento del regista, una violenza fine a se stessa.
Se le proponessero un poliziesco, che tipo di investigatore le piacerebbe essere?
Sicuramente non un intellettuale meditativo tipo Maigret. Preferirei uno vicino alla gente, di quelli che si sporcano le mani ogni giorno nella dura realtà, ma che hanno un’integrità morale a forte tenuta. Ecco, un Serpico: lui per me è il poliziotto per eccellenza. Al Pacino ligio al dovere, tutto d’un pezzo, imbarcato nella sua crociata personale anticorruzione fino ad arrivare a rischiare la vita pur di non derogare ai suoi principi è il mio modello di tutore dell’ordine eccezionalmente onesto, ostinato e controcorrente. Del resto ho deciso di entrare in polizia anche dopo aver visto questo film…
Perché il suo sito è aperto da una poesia sulla nostalgia?
Ci tengo a dire che non sono un melanconico di indole. Piuttosto ho molti momenti in cui provo nostalgia per i valori e l’educazione di un tempo, quando ci si divertiva a rubare le ciliegie dall’albero. Una metafora per dire che i giovani oggi, se non hanno tutti i giochi della playstation e lo zainetto griffato, si sentono infelici. Questo materialismo ed estetismo estremo, causa della perdita dell’essenza della vita, è pervasivo della nostra società occidentale. Lo si vede prima di tutto nei giovani che dovrebbero scoprire le sofferenze e capire il valore dei soldi. Io provengo da una famiglia numerosa, nella quale 100mila lire avevano il loro peso, e mi guadagnavo 7mila lire a metro quadro aiutando mio padre a mettere in posa le piastrelle.
Insomma Boni, lei è bello, intelligente e pure di animo nobile. Ha mai pensato di farsi clonare per la gioia dell’umanità… femminile?
(Ride e, ovviamente, non risponde).


Missione Unicef in Indonesia
Dopo aver compiuto numerosi viaggi a scopo umanitario con le associazioni non governative, dal 2005 Alessio Boni ha accettato di rivestire il ruolo di Ambasciatore Unicef. Insieme al presidente italiano della onlus e ad un funzionario della Polizia di Stato si è recato recentemente in Indonesia. «Siamo stati – racconta l’attore – nella zona nord, la più colpita dallo tsunami, per documentare la ricostruzione operata dall’Unicef di scuole, asili, ospedali, moschee. Poi siamo scesi in un’isola a sud di Bali, Lombok, e lì ho toccato con mano l’ignominiosa tratta dei minori. I contadini vendono per 3/400 dollari le loro figlie a ricchi signori, pensando che questi le porteranno in città per trovare loro un lavoro, invece le costringono a prostituirsi. Fa male vedere violate negli occhi quelle bambine, costrette ad avere 10 clienti al giorno. Quest’anno gli introiti del calendario ufficiale della Polizia di Stato saranno devoluti all’Unicef proprio per il contrasto della violenza sui bambini di questo Paese. Come ambasciatore cerco semplicemente di indurre la gente a pensare alle tragedie che vi sono nel mondo. Un po’ la stessa cosa che faccio nel mio lavoro in un altro modo: far riflettere lo spettatore su cosa siamo diventati e sulle mostruosità che l’essere umano può raggiungere».

01/03/2009