Cristiano Morabito

Poliziotti con il basco blu

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La storia, l’esperienza umana e professionale di chi è impegnato nelle missioni all’estero. Un contributo di aiuto e sacrificio che dura da dieci anni

«Imilitari del contingente internazionale ci avevano avvertito che qui in Kosovo le armi in mano alla popolazione erano ancora tantissime, così, per festeggiare il nuovo millennio, ci barricammo letteralmente in casa passando il nastro adesivo sui vetri delle finestre per evitare che le schegge ci investissero. Durante il conto alla rovescia per la mezzanotte pensavamo ai nostri cari e ai fuochi artificiali che avremmo visto dalle nostre case e piazze in Italia. E anche lì i fuochi ci furono, eccome! Pistole, Kalashnikov, granate ed artiglieria leggera. Riuscimmo comunque a brindare al nuovo anno, anche se al buio e sdraiati sul pavimento della cucina pensando ai parenti, agli amici e a Marco che quell’anno ci aveva lasciati». Così ricorda il capodanno del 2000 Victor, ispettore capo in servizio a Pec in Kosovo, uno dei tanti poliziotti impegnati nei Balcani nella missione di peacekeeping dell’Onu.
Peacekeeping, letteralmente “mantenimento della pace”. Una parola che negli ultimi vent’anni è entrata nel nostro lessico comune. Una parola semplice ma che, allo stesso tempo, racchiude in sé innumerevoli concetti, come aiuto, ricostruzione, ritorno ad una normalità sconvolta dai conflitti.

Nel segno della Risoluzione 1244
Risoluzione 1244. Un’altra frase, anzi un concetto più ampio ancora, che oltre a racchiudere quelli già detti, ne implica un altro: lavorare fianco a fianco con persone di altri Paesi, con culture ed usi diversi, ma tutti con uno scopo comune.
Fu proprio la Risoluzione 1244 votata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 12 giugno del 1999 che permise alle forze alleate della Nato di entrare nel Kosovo per cercare di ristabilire la pace. Del Kosovo, fino ad allora, si sapeva veramente poco. Una provincia autonoma, abitata principalmente da albanesi di religione musulmana, di quella Jugoslavia che, dopo la morte del maresciallo Tito, cominciava a dissolversi, portando allo scoperto tutte le contraddizioni e i drammi di popoli profondamente diversi costretti a vivere fianco a fianco dal calcolo politico. Scoppiò così uno dei conflitti più cruenti che la nostra storia ricordi e che vide la sua fine nel 1995, con la firma degli accordi di Dayton. Si pensava che la pace raggiunta nella città dell’Ohio avrebbe segnato la fine di tutti i conflitti e di quella pulizia etnica che aveva devastato i Balcani, ma purtroppo non fu così. Una provincia che fino al 1989 era stata autonoma, prima della revoca di quello status da parte del governo di Belgrado guidato da Slobodan Milosevic, stava per attraversare il suo periodo più oscuro. Il Kosovo, in maggior parte popolato dall’etnia albanese, iniziò a subire, dal 1997, la repressione e la pulizia etnica da parte delle forze armate della Serbia. Fino all’esplosione, nel 1999, di una vera e propria guerra tra le milizie di Milosevic e l’Uck (Ushtria clirimtare e kosovës), la formazione paramilitare kosovara che intendeva respingere, con tutte le proprie forze, il vicino invasore.
Ed è dunque il 1999 l’anno chiave in cui le Nazioni Unite decisero di inviare, al fianco della missione Nato denominata Kfor (Kosovo force), un contingente di pace per ristabilire quella già difficile “normalità” sconvolta dalla guerra: i baschi blu dell’Unmik (United nations interim administration mission in Kosovo), un vero e proprio esercito composto da uomini e donne di decine di nazioni con uno scopo comune, portare la pace ed aiutare nella ricostruzione di un’area totalmente devastata.

Il contributo della polizia
Anche l’Italia fu chiamata a dare il suo contributo con un proprio contingente, all’interno del quale, per la prima volta, venne inserita anche la Polizia di Stato. Una missione che oggi, a dieci anni dalla sua istituzione, vede ancora attivi i “baschi blu” con la divisa della nostra polizia nella zona balcanica ed anche in Palestina, con la missione Eu Copps, nella zona di Ramallah in supporto alla polizia dell’Autorità nazionale palestinese. Un totale a oggi di 32 poliziotti (318 a rotazione dal ’99), che operano sotto l’egida dell’Onu (missione Unmik) e dell’Ue (missioni Eulex, Eupm, Eupol Proxima, Eu Copps) in aiuto (e spesso in sostituzione) delle autorità locali. Infatti l’invio di personale all’estero è previsto sia per “aiuto”, ossia per il rafforzamento delle polizie locali attraverso il sistema dei “consiglieri” (esperti in specifici settori, come nel caso della Palestina) in ausilio per arrivare a ristabilire la normalità, sia per “sostituzione”. In questo ultimo caso, di fatto, i componenti della forza di polizia della missione agiscono come unica forza presente sul territorio che, via via, prima sostituisce, in seguito aiuta, fino a lasciare il campo alle forze locali, una volta che la ricostituzione di queste ultime raggiunge l’obiettivo (come nel caso delle missioni Unmik ed Eulex in Kosovo).
Vista la delicatezza dell’attività da svolgere, per operare in terra straniera a strettissimo contatto con personale di altre polizie (portatore non solo di esperienze umane diverse, ma anche e soprattutto di metodologie lavorative spesso opposte alle nostre) sono necessari requisiti di eccellenza.
Le missioni sono promosse da organismi internazionali (Onu ed Ue) che effettuano quelle che in gergo tecnico vengono definite call (chiamate). La particolarità è che queste call non riguardano interi contingenti inquadrati, bensì posizioni specifiche da ricoprire. Si entra così nel campo delle “no rank mission”, ossia missioni in cui il grado ricoperto nell’amministrazione di appartenenza spesso non corrisponde alle funzioni da ricoprire in base alla call. Può così capitare che un ispettore rivesta il ruolo di vertice nella della polizia di frontiera o che un assistente capo sia al vertice delle operazioni all’aeroporto di Pristina.
«Si è così lontani da casa e così responsabilizzati che è necessario che ci siano i requisiti necessari», dice Maurizio Piccolotti, il dirigente del I Reparto mobile di Roma, presso il quale confluiscono e sono poi inquadrati tutti i poliziotti che, alla fine dell’iter addestrativo, vengono inviati nei teatri in cui opereranno.

Racconti dai Balcani
«Ci siamo trovati davanti a situazioni particolari – continua Maurizio Piccolotti – come quando abbiamo dovuto fornire al personale inviato in Kosovo delle stufette a gas per poter riscaldare gli alloggi che, a causa dell’emergenza, erano privi in molte ore del giorno anche della corrente elettrica. Per andare in missione in posti del genere è fondamentale che ci sia un forte spirito di adattamento di base che i corsi non possono darti».
Adattamento. Questa è un’altra delle parole fondamentali che chi deve lavorare in Paesi appena usciti da una guerra cruenta che ha provocato più di 250mila morti e più di un milione (solo nel caso del Kosovo) di profughi, deve tener presente. E sono molti i racconti dei poliziotti che la richiamano, come quello di Paolo, un sovrintendente che, con il suo contingente, nel 1999 ha aperto la missione Unmik e ricorda che: «Dormivamo in case private selezionate in base a criteri di sicurezza e che solo saltuariamente erano servite da acqua corrente ed elettricità. Da allora per me il concetto di “cena a lume di candela” ha un significato del tutto particolare. Faceva molto freddo, ma la sera ci scaldavamo con l’amicizia che si creava intorno ad un piatto di pasta condito con la conserva che ci portavamo da casa».
Sono anche tante le operazioni comuni cui i poliziotti dal basco blu hanno partecipato nelle missioni balcaniche. Anche in quelle, come in Albania, nate non da risoluzioni internazionali, ma frutto di accordi bilaterali tra i Paesi. Ciro, ispettore capo della Mobile di Napoli con dodici anni di esperienza sulle volanti, veterano delle missioni nei Balcani ed attualmente in partenza per la Bosnia, ricorda il caso della ragazza albanese che «portata in Italia per prostituirsi, rimasta incinta e quindi non più “produttiva”, venne fatta tornare nel suo Paese dal “compagno” che quotidianamente la maltrattava pesantemente. Un giorno questa ragazza venne da noi dicendo che voleva denunciare il suo aguzzino. Le risposi che avrebbe dovuto farlo presso la polizia locale, ma poi pensai che in alcuni villaggi del Nord ancora è in vigore il “Canun” (una sorta di legge tribale non scritta in base alla quale l’uomo è signore e padrone della propria donna) e l’accompagnai a denunciarlo promettendole che non le sarebbe successo nulla. E così fu». O ancora quando «appostati per due giorni in una stazione di servizio in pieno inverno con la temperatura sottozero, abbiamo letteralmente “braccato” Akim Pepa, uno dei criminali più pericolosi di tutta l’Albania».
Il territorio del Kosovo, all’interno della Risoluzione 1244 dell’Onu, è stato definito come uno dei più pericolosi al mondo e, in questo scenario, si sono trovati ad operare più volte anche i nostri poliziotti; un evento su tutti, i disordini del 17 marzo 2004, scoppiati a causa della notizia di tre bambini albanesi inseguiti dai serbi e spinti nel fiume Ibar a Mitrovica. Notizia che poi si rivelò falsa ma che dette il via ad una serie di scontri che la storia recente del Kosovo ricorda come tra i più duri e c’è chi ancora ne porta i segni, come Antonio Del Gaizo, assistente in servizio al Reparto mobile di Napoli, per una grave ferita alla testa suturata con ben venti punti. In tre giorni furono incendiate ventotto chiese ortodosse e costrette a fuggire migliaia di persone di etnia Serba, mai più rientrate nelle proprie case.
«Un Paese – dice Maurizio Piccolotti – in cui l’apparente normalità attuale fa da contraltare ai segni lasciati sui palazzi dove, anche se intonacati alla buona, sono ancora visibili i segni delle cannonate dell’artiglieria di Milosevic».

Perdite, ma anche risultati encomiabili
Dieci anni di missioni internazionali che, purtroppo, hanno visto anche dei caduti nel nostro contingente, come Marco Gavino, l’agente scelto morto il 12 novembre del 1999 in un incidente aereo mentre tornava da una licenza in Italia. Bisogna mettere in conto anche questo, purtroppo. E Marco, prima di partire, lo sapeva, così come lo sapeva anche Francesco Niutta, il sovrintendente che il 20 novembre del 2003, a causa delle condizioni precarie del manto stradale, ha perso la vita sulla via che lo portava a Sarajevo cadendo, con il suo fuoristrada, da un cavalcavia.
Ma questo decennio ha portato anche importanti riconoscimenti da parte della comunità internazionale nei confronti dei singoli e di tutta la polizia, culminati con la medaglia di bronzo dell’Onu “Al servizio della pace” per i particolari risultati ottenuti dall’inizio della missione (agosto 1999), di cui è stata insignita la bandiera della Polizia di Stato il 23 febbraio del 2002. Prima occasione in cui le Nazioni Unite hanno attribuito questo importante riconoscimento ad una forza di polizia e prima decorazione ottenuta per operazioni al di fuori del territorio nazionale per la Polizia di Stato.


In servizio all’estero, come fare?
A monte, ci deve essere la call (cioè una richiesta per posizioni specifiche) effettuata da parte delle Organizzazioni internazionali (Unione europea o Nazioni Unite). Le richieste di questi Enti vengono recepite attraverso l’Ufficio coordinamento e pianificazione delle forze di polizia, che le comunica alle Amministrazioni competenti. Per la polizia le strategie per l’invio di personale all’estero sono affidate, su direttiva del capo della Polizia, alla Direzione centrale per gli affari generali della Polizia di Stato, che deve valutare l’interesse istituzionale dell’Amministrazione per la richiesta e raccordare la successiva attività delle altre Direzioni centrali competenti (dall’emanazione del bando di concorso, all’attivazione delle procedure di attitudine psico-fisica e di formazione, all’emanazione del decreto istitutivo della missione, fino all’equipaggiamento del personale).
La Direzione centrale per le risorse umane provvede quindi a diramare il bando di concorso attraverso una circolare che, oltre ad essere inviata ai vari uffici, viene immediatamente pubblicata sul sito della polizia e su DoppiaVela.
Nel bando sono definiti i termini della missione, i compiti e le figure professionali necessarie; naturalmente, è indispensabile un’ottima e documentata conoscenza delle lingue straniere. La stessa Direzione si occupa, in seguito, di valutare le candidature pervenute e provvedere alla selezione del personale, sulla scorta dei requisiti personali e professionali, tenuto conto del tipo di missione e del teatro operativo. Il personale così selezionato, viene inviato, attraverso la Direzione centrale di sanità, all’accertamento dell’idoneità psico-fisica, mentre la Direzione centrale per gli istituti di istruzione si occupa di organizzare i corsi specifici a seconda della missione. Una volta completato l’iter, il personale frequenta un corso adattato “su misura” in base alla missione, che comprende, oltre alle materie tipiche (addestramento al tiro, tecniche operative, diritto internazionale, eccetera), anche argomenti specifici, come le tecniche di guida su fuoristrada (fondamentali per poter operare in zone in cui, spesso e volentieri, le strade sono in condizioni disastrate) e la comunicazione interculturale, materia fondamentale quando si opera a contatto con popoli profondamente diversi, per i quali anche il linguaggio del corpo può essere interpretato diversamente da come siamo abituati. Per assicurare la migliore assistenza logistica al personale, è indispensabile il coinvolgimento delle altre Direzioni centrali (Stradale, Ferroviaria, delle Comunicazioni e per i Reparti speciali, dei Servizi tecnico-logistici, eccetera).Infine, tutto il personale inviato all’estero viene aggregato presso il I Reparto mobile di Roma al quale, con specifico decreto del capo della Polizia (emanato per ogni missione), vengono attribuite tutte le incombenze di carattere addestrativo, amministrativo e logistico, nonché il compito di monitorare, tramite l’Ufficio coordinamento missioni estere, le condizioni del contingente inviato.

01/03/2009