Alberto Oliverio

A me gli occhi

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Paura, rabbia e piacere. Tutte le nostre emozioni primarie espresse con uno sguardo. A confermarlo anche la scienza

Secondo un vecchio adagio, gli occhi sono lo specchio dell’anima. Non soltanto ci rivelano diversi aspetti della personalità ma anche tradiscono emozioni, palesi o nascoste che esse siano. Se vogliamo tentare di conoscere una persona, dobbiamo guardarla in faccia, scrutare il suo sguardo, analizzare quelle minuscole tensioni dei muscoli che contornano l’occhio, impercettibili increspature del muscolo che lo circonda, l’orbicolare, il lieve inarcarsi delle sopracciglia ad opera dell’elevatore della palpebra superiore, i quasi impercettibili movimenti dei globi oculari ad opera dei muscoli obliqui e retti. L’occhio si rivolge appena verso il basso, come nelle espressioni di timidezza, rifugge dal contatto spostandosi lateralmente, come avviene spesso quando si mente o si teme di rivelare qualcosa di troppo, ruota verso l’alto ad indicare perplessità. Quanto alle palpebre, si spalancano per lo stupore o la paura, si socchiudono se si riflette o si minaccia, sono fortemente serrate per il dolore o per escludere qualcuno o qualcosa dal campo visivo. Con l’esperienza siamo in grado di inquadrare questi impercettibili movimenti muscolari nel contesto globale delle espressioni facciali, il rilassarsi o contrarsi della bocca e delle mascelle, la distensione dei muscoli della fronte o la loro contrazione in rughe di perplessità o disagio. Se a ciò si aggiunge che anche il dilatarsi o il costringersi della pupilla ci avverte che il nostro interlocutore è attento, sorpreso, perplesso, impaurito, abbiamo a disposizione una serie di indizi che il celebre Sherlock Holmes, l’investigatore creato da Sir Arthur Conan Doyle, non avrebbe mancato di cogliere per individuare il colpevole o l’innocente di turno, come nel caso della donna protagonista de La seconda macchia, della quale Holmes fa notare a Watson “le continue manovre per avere la luce alle spalle. Temeva infatti che leggessi le sue espressioni che, tradendo i suoi pensieri, la costringessero a palesare la sua colpa”.
Charles Darwin, che alle espressioni facciali e all’espressione degli occhi ha dedicato un lungo saggio, osserva come esse siano riconosciute senza che vi sia un’analisi consapevole e come le più importanti tra esse siano pressoché identiche in tutto il genere umano: possiamo così decifrare espressioni di paura, gioia, stupore, disgusto, ira, tristezza, indipendentemente dall’etnia e dalla cultura cui appartiene il nostro interlocutore, che esso sia un aborigeno australiano o un abitante di New York, un giapponese o un pigmeo. Secondo Darwin, i muscoli più importanti nel connotare le espressioni facciali sono quelli sopracciliari, responsabili dell’aggrottare le sopracciglia, attività legata a momenti di riflessione, meditazione, irritabilità, malumore, determinazione, o anche alla percezione di un sapore o di un odore strano. Un’altra espressione legata al corrugatore del sopracciglio, è quella dello stupore, caratterizzata dal tipico sopracciglio verso l’alto, anch’essa innata, come mostra un noto esempio, quello di Laura Bridgman, una ragazza nata sorda e cieca: anch’essa mostrava quest’atteggiamento, quando era sorpresa. Un muscolo, quindi, serve diverse espressioni emotive che però differenziamo sulla base di altri indizi: la contrazione di altri muscoli e, ovviamente, il contesto.
Ma cosa fa sì che lo sguardo si adegui immediatamente alla situazione? E perché siamo in grado di decifrare, al di là dell’esperienza e della cultura, alcune espressioni facciali che corrispondono alle cosiddette emozioni primarie come la paura, la rabbia, il piacere? Negli ultimi anni gli studi sull’emozione sono stati centrati sul ruolo del sistema limbico, un insieme di nuclei più antichi della corteccia cerebrale dal punto di vista della nostra storia evolutiva. Il sistema limbico è infatti presente in tutti i mammiferi e regola la loro vita emotiva: di esso fa parte l’amigdala (è un gruppo di strutture interconnesse, a forma appunto di mandorla, posto sopra il tronco cerebrale, vicino alla parte inferiore del sistema limbico) che svolge un ruolo centrale nelle risposte di paura e che è stata studiata approfonditamente da Antonio Damasio e da Joseph LeDoux. Il ruolo dell’amigdala emerge nell’ambito del cosiddetto condizionamento alla paura, una situazione sperimentale in cui gli animali ricevono una punizione o devono fronteggiare una situazione ansiogena in un ambiente particolare, ben connotato e quindi facilmente riconoscibile: in seguito questo stesso ambiente susciterà reazioni di paura anche in assenza di punizioni o stimoli ansiogeni in quanto l’animale ha associato la punizione al contesto ambientale. Ebbene, se l’amigdala è stata lesa, gli animali non sono più condizionabili. Quando questi studi sono stati estesi agli esseri umani è stato accertato che l’amigdala si attiva in tutte le situazioni ansiogene, scatenando una serie di risposte come il batticuore, l’aumento della pressione arteriosa, il pallore, il sudore. In altre parole, coinvolgendo il corpo nella paura. Negli esseri umani, inoltre, l’amigdala si attiva anche quando si osserva un’immagine fotografica di una persona il cui volto manifesta paura: l’elemento critico per attivare l’amigdala è l’espressione degli occhi, soprattutto quando sono molto sbarrati, come avviene nell’espressione del terrore. Va precisato che l’amigdala non si attiva quando si osserva un volto che esprima calma o un’emozione positiva, come la gioia o lo stupore, ma soltanto quando il viso ha un’espressione di paura o terrore. LeDoux ha anche osservato che le persone che hanno subìto lesioni più o meno vaste dell’amigdala non provano paura anche in quelle situazioni in cui ciò sarebbe opportuno: inoltre, quando l’amigdala è lesa, non si è in grado di percepire le espressioni di paura di una persona in carne e ossa o, più semplicemente, in fotografia.
In conclusione, siamo programmati a rispondere ad alcune espressioni facciali, in particolare a quella degli occhi, al centro dei messaggi non verbali trasmessi dal volto umano. D’altronde, se attraverso una particolare tecnica si segue lo sguardo di una persona che esamina un volto nuovo, reale o riprodotto in fotografia, è stato notato che lo sguardo si concentra inizialmente sugli occhi e successivamente sul cosiddetto “triangolo occhi-naso-bocca”, nel tentativo di comprendere quale sia l’atteggiamento della persona con cui ci confrontiamo. Questo comportamento di scrutamento è stato simulato al computer per sviluppare un software che analizzi le varie espressioni facciali di un interlocutore per comprendere quali siano le sue emozioni nascoste e quindi se sia sincero o menta. Dal punto di vista applicativo, la conoscenza delle espressioni facciali ha portato all’elaborazione di software in grado di dar vita a quelle “assistenti digitali” virtuali che ci accolgono, sbarrando gli occhi, ammiccando e sorridendo in diversi siti della Rete.
 


Le impronte dell’occhio
Non sono soltanto le impronte digitali a identificare una persona. Una tecnica più recente e affidabile si basa sull’identificazione delle “impronte dell’occhio”, cioè nel riconoscimento del codice personale che è scritto sull’iride. Sono stati necessari oltre dieci anni di studi per delineare le caratteristiche che rendono unica l’iride di ogni individuo. Da qualche anno, però, è stato sviluppato un metodo di codificazione digitale dell’iride che si basa principalmente sulla distribuzione dei sottili capillari sanguigni che la percorrono. Utilizzando una telecamera che riprende l’occhio, l’immagine ottenuta viene posta a confronto con quelle nella memoria del computer: quando le due immagini corrispondono il riconoscimento è certo in almeno il 99% dei casi. Il tutto in pochi secondi e senza fastidi per la persona, tanto che l’analizzatore dell’iride potrebbe gradualmente sostituire i metodi di identificazione come quelli basati sulla forma delle mani o sulle impronte digitali che, già oggi, vengono utilizzati per monitorare l’accesso alle banche o per riconoscere le persone che hanno accesso a locali ad alta sicurezza. Esistono però ancora alcuni inconvenienti da superare, tra questi la difficoltà di operare su iridi molto scure: ma gli sviluppi dell’informatica – si pensi all’attuale diffusione di personal computer corredati da un lettore di impronte digitali che blocca l’accesso agli estranei – faranno sì che l’impronta dell’iride diventi una delle più aggiornate “tecnologie biometriche” messe a punto per l’identificazione di una persona.


Colpevole o innocente
Sino a che punto è possibile mentire, ora che le neuroscienze penetrano sempre più a fondo nei meandri e nelle nicchie oscure del cervello? La famosa macchina della verità, a noi nota soprattutto grazie a tanti polizieschi americani, è ormai andata in pensione oppure esistono strumenti più raffinati e avveniristici?
Diciamo anzitutto che la macchina della verità si basa sul fatto che essa rivela – o rivelerebbe – le variazioni di una serie di parametri fisiologici tipici della menzogna, grazie a un monitoraggio del ritmo cardiaco, dell’attività respiratoria, della sudorazione a livello del palmo della mano e del tono muscolare: i tracciati elettrocardiografici, respiratori, la risposta galvanica cutanea (la resistenza della pelle è tanto più alta quanto maggiore è la sudorazione causata da uno stato emotivo) e lo stato di tensione muscolare segnalano infatti i cambiamenti nervosi che si verificano quando un’emozione attiva il sistema nervoso vegetativo, come può verificarsi quando si mente.
Adesso è stata messa a punto una tecnica basata sull’analisi delle espressioni facciali e sui movimenti oculari. Con i suoi 200 muscoli, il volto umano può atteggiarsi a più di 50mila espressioni del volto: un numero enorme che non sempre siamo in grado di decifrare. Un computer, invece, attraverso un apposito software, può decodificare un vasto numero di espressioni facciali dimostrando la maggiore o minore abilità di un essere umano. Abbiamo quindi una macchina della verità perfetta? La risposta è: quasi perfetta. Infatti in circa l’1% dei casi vi sono persone, dei mentitori perfetti, che non lasciano trasparire nulla nella loro mimica facciale: persino il nucleo del cervello che si attiva nel corso dell’emozione e delle menzogne, l’amigdala, dimostra una calma piatta quando questi mentitori perfetti dicono delle bugie.

01/03/2009