Raffaele Lupoli

Vado a vivere in Cohousing

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Partono in Italia le prime esperienze abitative che promuovono socialità e condivisione di beni e servizi, con un occhio all’ambiente

Condividere con i vicini di casa la lavanderia e la stanza dei giochi per i bambini. Usare una sola auto per raggiungere assieme il lavoro. O addirittura cenare con tutti gli inquilini della scala A in una sala comune. Nel Paese delle riunioni di condominio affrontate con il coltello fra i denti sembra fantascienza. Eppure c’è chi lo fa da tanto tempo e con grandi soddisfazioni in termini relazionali. Per giunta, risparmiando soldi e tempo.

Privacy e socialità
La parola magica che rende possibile ciò tradisce l’origine non italiana dell’iniziativa. Si tratta del cohousing, una forma di vicinato dove coppie e singoli, ognuno nel proprio appartamento, decidono di condividere spazi e servizi comuni come il mangiare, la gestione dei bambini, la cura del verde, la sala hobby e così via. Qualcosa di più rispetto al tradizionale condominio, dove ognuno è trincerato nel suo appartamento, ma qualcosa di meno di una “comune”, dove a legare i membri è anche la condivisione di valori religiosi e politici. «Così si unisce il vantaggio di avere una propria casa da rendere un rifugio dal mondo esterno con quello di vivere una vita relazionale soddisfacente, merce sempre più rara nella società disgregata di oggi» spiega Matthieu Lietaert, ricercatore dell’Istituto Universitario Europeo, autore del libro+dvd Cohousing e condomini solidali (ed. Aam Terra Nuova). Questa particolare esperienza abitativa risale all’inizio degli anni Ottanta in Danimarca, da dove si è diffusa nel resto della Scandinavia e poi negli Stati Uniti, in Inghilterra, Canada, Australia e Giappone.

Utrecht condivide
A Nieuwegein, un villaggio integrato nella città di Utrecht in Olanda, c’è il più grande progetto di cohousing europeo. Dal 1983 i membri del progetto Gw, un gruppo di quasi cento persone, dispone di normali appartamenti di varie misure con qualco

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01/01/2009