Annalisa Bucchieri
Due come noi
Coraggio e altruismo non conoscono età. Le strade di due ambasciatori Unicef (Lino Banfi , nonno d’Italia per eccellenza, e il piccolo Niky) si incontrano lungo il cammino della solidarietà
Ha fatto ridere e riflettere tre generazioni d’italiani. E pensare che potevamo ritrovarcelo in confessionale ad ascoltare i nostri peccati o a celebrare la santa messa in barese. Lino Banfi, al secolo Pasquale Zagaria, era entrato in seminario a 11 anni per volere della famiglia. Poi, visto che la vocazione non arrivava, ne è uscito, affrontando gli anni duri della ricostruzione dell’Italia del dopoguerra. Sarà per la sua infanzia difficile, segnata dalla fame e dalla precoce perdita dei sogni («Babbo Natale era un lusso a cui non potevamo permetterci di credere») e per una giovinezza che non ha avuto quella spensieratezza che invece lui ha saputo regalare agli altri, che Banfi ha maturato una sensibilità incredibile per i bambini e i ragazzi, diventando con la fiction di Un medico in famiglia, il nonno d’Italia per eccellenza, Nonno Libero, dispensatore d’amore e saggezza e vero collante della famiglia. Un ruolo in cui lui ha creduto molto non solo da attore ma come persona. Affetto da monogamia cronica, 46 anni di matrimonio e 10 di fidanzamento, è un uomo tutto set e famiglia. Tanto che nella terza stagione della sua vita sono arrivati due riconoscimenti importanti: la massima onorificenza italiana, cavaliere di gran croce, e la carica di ambasciatore Unicef.Ci racconta l’incontro con l’Unicef?
Ricevetti una chiamata nel 2000 dal comitato italiano: «Sei stato segnalato da molti come persona giusta per fare il Goodwill ambassador, l’ambasciatore di buona volontà». Naturalmente mi sentii onoratissimo e, siccome sono un po’ matto, nonostante la mia non più tenera età risposi: «Accetto e voglio fare anche le missioni». Non se lo fecero ripetere e mi mandarono in Angola ed Eritrea. Viaggi difficili in posti martoriati da guerre, carestie ed emergenze sanitarie. Ma è stata un’esperienza bellissima.
Quali sono i suoi ricordi più forti legati alle missioni in Eritrea e Angola?
Ho due immagini che mi sono rimaste impresse. La prima legata all’Eritrea, il giorno che arrivammo in un campo profughi sperduto, dopo 4 ore di jeep. Pioveva a dirotto. I bambini stavano andando a piedi verso la baracca-scuola che era quella che avremmo dovuto ricostruire in muratura con i fondi Unicef. Mentre alcuni adulti avevano in testa gli impermeabilini regalati dall’associazione, i piccoli studenti li portavano arrotolati sul braccio a protezione del quaderno, bene raro, inzuppandosi il resto del corpo. In Angola, invece, mi colpì una montagna di gusci d’uova, sporchissimi, accumulati al centro di un villaggio. La suora che li custodiva mi vide attonito e mi spiegò che era un deposito importantissimo per loro, arrivavano principalmente dai ristoranti. «Li puliamo alla bene e meglio – mi disse – poi li essicchi ...
01/12/2008