Annapaola Palagi

Invisibili tracce

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Grazie alla loro professionalità e alle sofisticate tecnologie di cui dispongono, gli investigatori della Scientifica riescono a scovare anche la minima impronta presente sulla scena del crimine

Provate a guardarvi i polpastrelli per vedere se scorgete quelle linee – curve o diritte, spezzate o continue – che sono il vostro tratto distintivo. Si tratta delle cosiddette creste papillari i cui andamenti distinguono una persona dall’altra. Sono la vostra impronta e – per la polizia – l’unica traccia certa che identifica una persona al 100 per cento, più del Dna. Infatti due gemelli omozigoti hanno lo stesso Dna, ma la  loro impronta digitale è invece sempre, e comunque, diversa. In realtà «quando si parla di impronte – specifica chiaramente Agatino Giunta, responsabile della Sezione indagini sulle impronte latenti della Polizia Scientifica – si intendono tutte le impronte papillari presenti sul palmo della mano e non solamente il disegno dei polpastrelli. Qualora una persona fosse scalza potrebbero essere utili ai fini identificativi anche le conformazioni papillari delle piante dei piedi». Insomma i nostri tratti distintivi sono sulla pelle. L’epidermide infatti è viva e respira e serve a termoregolare il nostro organismo. Lo fa con il sudore che è sempre presente sulla nostra cute e la rende umida; così ogni volta che tocchiamo la superficie di un oggetto lasciamo una nostra traccia. A volte l’impronta è evidente. Altre invece c’è, ma non si vede. In termine tecnico questa patina che sta sulla nostra pelle si chiama “essudato” ed è composto per il 98 per cento da acqua e per il restante 2 per cento da componenti chimiche inorganiche ed organiche. Per essere ancora più precisi, spiega Agatino Giunta, questa piccola parte di essudato è costituita da lipidi, amminoacidi e da un vasto numero di altre sostanze. E sono proprio questi composti che gli investigatori vanno a ricercare per poter rendere visibile l’impronta attraverso l’utilizzo di sistemi ottici, reattivi chimici ed attrezzature specifiche.

Dagli ultravioletti ai reattivi chimici
Sulla scena del crimine durante un sopralluogo si repertano tutti gli oggetti che possono essere utili alle indagini, compresi quelli in cui sono state deposte le impronte papillari evidenti. Queste vengono in genere evidenziate con delle polveri esaltatrici e poi acquisite attraverso un nastro adesivo trasparente che viene posizionato su un supporto, nero o bianco a seconda della polvere impiegata, in modo da rendere più netto possibile il contrasto tra la polvere, il colore dell’oggetto e quello del supporto. I poliziotti chiamati a intervenire con urgenza sul luogo di un delitto  possono procedere d’iniziativa (art. 354 del codice di procedura penale), per esempio effettuando i rilievi volti a ricercare  non solo le impronte evidenti ma anche quelle latenti: quelle cioè che ci sono ma non si vedono. In questo contesto le squadre di sopralluogo evidenziano i frammenti di impronte latenti con le polveri esaltatrici e tale attività risulta efficace specie quando le impronte papillari sono “fresche”: deposte cioè fino a 100 ore prima dell’intervento di sopralluogo. Nei casi di crimini efferati o per indagini di particolare rilevanza quali rapine, omicidi e violenze, gli specialisti del Servizio Polizia Scientifica, il gruppo ERT (Esperti Ricerca Tracce), intervengono sulla scena del crimine con sofisticate attrezzature ottiche. Una delle tecniche più innovative per evidenziare le impronte latenti prevede l’utilizzo di una luce ultravioletta che rende fluorescenti, all’osservazione di un apparato “Scenescope”, le impronte altrimenti invisibili. Nei casi più comuni, invece, la ricerca viene svolta in laboratorio dove vengono inviati gli oggetti sequestrati sulla scena del crimine. In genere, spiega ancora Agatino Giunta, poiché le procedure sono complesse e gli accertamenti tecnici sono considerati irripetibili, è necessaria l’autorizzazione del magistrato e le previste garanzie di legge agli aventi diritto. In questi casi i tempi per la trattazione dei reperti vengono notevolmente dilatati. «E più passa il tempo, più l’acqua che è componente principale dell’impronta tende ad evaporare e le sostanze chimiche iniziano a decomporsi», spiega il responsabile della Sezione. Risulta più opportuno quindi ricorrere a metodiche che prevedono l’uso di luci forensi, camere bariche e reattivi chimici.

Dove si nasconde l’impronta?
Nella ricerca delle impronte latenti però c’è un altro elemento importante che influenza il lavoro e il metodo di ricerca svolto dagli investigatori: la superficie su cui si nascondono i disegni della pelle. Gli esperti del settore distinguono le superfici in porose o non porose. Su quelle non porose, tipo il vetro o una qualsiasi altra superficie che non consente l’assorbimento di essudato, l’impronta è più facilmente trattabile e in genere, spiegano gli esperti della Polizia Scientifica, la ricerca si concentra sulla componente lipidica dell’essudato. Per le superfici porose, come la carta o il legno non trattato, invece, le componenti chimiche possono venire assorbite e quindi rimanere più a lungo; la ricerca in questo caso si concentra sugli amminoacidi e si utilizzano reagenti chimici come per esempio la Ninidrina che, legandosi proprio con gli amminoacidi della pelle, assume una colorazione porpora. Per vederne un esempio siamo andati nel laboratorio della Scientifica dove una lettera – una richiesta di riscatto che faceva seguito a un rapimento – trattata con Ninidrina risultava piena di impronte papillari porpora che quasi sicuramente identificavano la persona che aveva scritto quel messaggio. Una volta individuata, la traccia è stata documentata fotograficamente e la stampa analizzata dai dattiloscopisti.
In altri casi, per ricercare un’impronta latente si può usare anche il DFO (1,8 Diazo-9 fluorenone), una sostanza che reagisce sempre con gli amminoacidi dell’essudato e se colpita da luce laser diventa fluorescente. Tra i vantaggi di questo sistema c’è il fatto che risulta efficace quando le superfici sono policrome e per tutte le superfici colorate che in genere non permettono un buon contrasto. Al contrario, su una superficie non porosa un’impronta anche se è “vecchia” si evidenzia molto bene con l’impiego dell’Estere-cianoacrilico. Questo elemento, che si lega alla parte lipidica della traccia, viene vaporizzato all’interno di una speciale camera barica e forma un polimero bianco che si deposita in corrispondenza delle linee papillari. Per cui, ad esempio, se su un coltello rinvenuto sulla scena del crimine c’è una vecchia impronta che non si vede, l’oggetto viene inserito nella speciale apparecchiatura e sottoposto al trattamento: la polvere bianca si deposita sopra le creste papillari rendendo così evidente a occhio nudo l’impronta prima invisibile.

I punti d’identità dell’impronta
L’accertamento di evidenziazione di impronte papillari latenti rientra tra quelli di natura irripetibile, ribadisce Agatino Giunta e, proprio per questo motivo, alla fine di ogni analisi tecnica, per conservarne traccia, l’impronta ottenuta viene fotografata da specialisti del settore che devono essere in grado di coglierne tutti i dettagli, mediante luci e contrasti. «Il nostro lavoro – sottolinea ancora l’esperto – è quello di riuscire a individuare le impronte latenti e quindi poter affermare la presenza di queste determinate tracce senza però poter dire a chi appartengono». Una volta trovata l’impronta infatti entrano in gioco gli esperti dattiloscopisti della sezione identità giudiziaria che devono analizzarla con molta attenzione. Ogni impronta è diversa dall’altra e la particolarità è data proprio dagli andamenti che prendono le linee che la compongono. In genere su un polpastrello si possono distinguere tre sistemi di linee: quelle di base (basali) che sono nella parte più in basso e sono per lo più orizzontali e parallele alla piega della falange; quelle laterali (marginali) leggermente arcuate che si trovano ai margini del dito; e quelle centrali, cioè al centro del polpastrello. Detto questo bisogna poi chiarire che le impronte si dividono in 4 categorie che si definiscono in base alla presenza di un “delta”: adelta, monodelta, bidelta e composta. Il delta è una particolare zona del disegno papillare che si determina dalla confluenza dei tre suddetti sistemi di linee. Le impronte adelta sono caratterizzate dalla assenza di questo particolare disegno, mentre nella maggior parte dei casi invece su un polpastrello se ne può trovare uno ma, a volte, anche due e allora si parla di monodelta o bidelta. L’impronta composta è invece quella che contiene 2 delta più altre caratteristiche particolari. I disegni papillari sono inoltre caratterizzati da “minutiae” o punti caratteristici, quali occhielli, interruzioni di linee, biforcazioni, uncini etc. che rendono uniche le impronte. Tali “minutiae” vengono definite punti d’identità ma, spiega Agatino Giunta, «perché un’impronta, o un frammento di impronta, possa essere utilizzata a fini giudiziari investigativi devono essere individuati almeno 16 o 17 di questi punti caratteristici». Solo così si può passare al successivo confronto tra l’impronta evidenziata e quella presente sul cartellino fotosegnaletico per poterla eventualmente attribuire ad una persona. Attualmente il confronto dattiloscopico viene effettuato tramite un sistema informatico (Afis) che mette a confronto le impronte acquisite nel sopralluogo ed evidenziate in laboratorio con quelle già inserite nella banca dati. L’Afis è in grado di individuare una serie di impronte di candidati che possono essere compatibili con quella individuata nel sopralluogo o in laboratorio. Ma sarà sempre l’operatore esperto a dover poi analizzare i vari disegni della pelle e gli andamenti delle creste per decidere se e a chi è attribuibile quella traccia.

Traditi da un’impronta
I casi in cui gli autori di reato sono stati traditi dalla loro impronta sono tanti. Nel caso del sequestro dell’imprenditore Giuseppe Soffiantini per esempio – racconta Agatino Giunta – le tracce dei polpastrelli dei sequestratori Giuseppe Farina e Attilio Cubeddu erano già state individuate nei covi che, di volta in volta, i rapitori abbandonavano. In particolare le loro impronte erano state trovate sui giornali lasciati nei vari nascondigli: si conoscevano quindi i sequestratori prima ancor di averli trovati.
Un altro caso di rilievo assurto agli onori della cronaca è quello dell’omicidio di Liliana Grimaldi, professoressa di pianoforte di 74 anni, strangolata nella sua abitazione romana nel 1994. Nel corso del sopralluogo, la Polizia Scientifica aveva repertato vicino al cadavere della donna un foglio di carta, sul quale, nei laboratori di esaltazione di impronte latenti, era stata poi evidenziata una impronta digitale. Soltanto  nel 2005 l’Afis ha potuto fornire l’identificazione di questa impronta, attribuendola ad un minore nomade, che, all’epoca dell’omicidio, non era inserito nella banca dati delle impronte digitali in quanto incensurato. La scorsa estate, l’assassino è stato arrestato in un campo nomadi della Capitale su provvedimento della Procura dei minorenni.

01/11/2008