Elisabetta Paci

Il cuore italiano dell’America

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A New York la Banda della Polizia di Stato ha sottolineato con i colori della sua musica la vicinanza e la collaborazione tra i due Paesi

«Parlate italiano? E allora avvicinatevi che vi voglio ascoltare». A chiederlo una signora a cui dell’Italia sono rimasti soprattutto i ricordi dopo che il terremoto in Irpinia le ha portato via anche il paese  lasciato cinquant’anni prima per gli Stati Uniti. è tra i tanti italo-americani che la sera del 9 ottobre scorso hanno affollato l’Hammerstein Ballroom dei Manhattan Center Studios a New York, prima tappa della mini tournée americana della Banda Musicale della Polizia di Stato, in occasione dei festeggiamenti in onore di Cristoforo Colombo. In un clima sfumato di nostalgia e un’atmosfera d’altri tempi, quasi cinematografica, complici il teatro dei primi del Novecento e l’uniforme storica indossata dalla  Banda, il maestro Maurizio Billi ha diretto brani di Verdi, Morricone, Bernstein, Ellington,  alcuni impreziositi dalla voce di Cheryl Porter. A chiudere, lo Star-Spangled Banner, l’inno americano, e il Canto degli Italiani che ha idealmente accompagnato la Banda a Washington. Qui, due giorni dopo, nell’atrio di acciaio e vetro dall’Ambasciata d’Italia, le note dell’Inno di Mameli hanno lasciato spazio nuovamente a brani di Ellington, Verdi, ma anche Rossini, Lehar e Bellini e alla partecipazione del soprano Nie Hongmei, cantante italiana di origini cinesi. «La Banda è il miglior ambasciatore della Polizia di Stato», ha detto nel suo saluto iniziale, e con evidente cognizione di causa, Giovanni Castellaneta, ambasciatore d’Italia negli Stati Uniti, mentre il vice capo vicario della Polizia Nicola Izzo ha ricordato la stretta e consolidata amicizia e la collaborazione che lega i due Paesi e le loro forze di polizia e come «attraverso la musica, la Banda contribuisce a divulgare le migliori tradizioni di cultura e i valori della nostra Polizia e dell’Italia». Sull’importanza della trasmissione del ricco patrimonio culturale e linguistico italiano alle nuove generazioni si sono soffermati i rappresentanti della Columbus Citizens Foundation e il console generale d’Italia a New York, Francesco Maria Talò, nel corso della cerimonia di deposizione di una corona di alloro sotto la statua di Cristoforo Colombo a Columbus Circle, New York, dove la Banda si è di nuovo esibita.
Il 13 ottobre, in un clima quasi estivo in cui anche Central Park non si era ancora tinto dei caldi colori autunnali, su tutto ha prevalso il tricolore. Ad accendersi di rosso, bianco e verde per primo nella notte è stato l’Empire State Building e poi la città che, dopo la messa solenne celebrata nella cattedrale di Saint Patrick dall’arcivescovo di New York Edward Egan, ha accompagnato lungo la Fifth Avenue la Parata del Columbus Day e la Banda della Polizia di Stato, tra applausi e bandiere tricolori.

La promessa del sogno americano
Eugene Nardelli aveva tre anni e mezzo quando ha lasciato le Puglie e la città di Fasano, dove era nato, per imbarcarsi sul transatlantico che lo ha portato a New York. Suo padre in poco tempo e con l’aiuto del suocero aprì un piccolo negozio di frutta e verdura sulla 101ma strada, appena sotto il quartiere della Harlem spagnola. Non è mai stato un negozio ricco, ma la dedizione del padre ha permesso ai quattro figli di finire gli studi fino alla laurea e di afferrare la loro porzione del sogno americano.
Settanta anni dopo quel viaggio, il giudice di appello del primo Dipartimento della Corte Suprema Eugene Nardelli, ex presidente del Columbus Club che organizza la parata italiana del 12 di ottobre, guarda all’esperienza della sua famiglia come un’allegoria del successo che tanti suoi e nostri connazionali hanno raggiunto, nella magistratura come in politica, nelle corsie di ospedale, negli istituti di ricerca e nelle aule universitarie, fino agli studi miliardari di Hollywood.
«Mio padre, e molti che sono venuti come lui dall’Italia, avevano uno spiccato senso della giustizia e del rispetto dell’ordine – ricorda Nardelli – e in America hanno colto immediatamente la promessa di uguaglianza e delle pari opportunità per tutti i cittadini. Da immigrati ci siamo trovati a vivere in zone di confine tra la ricchezza del centro e la disperazione dei ghetti, ma la presenza dei poliziotti nelle nostre strade ci dava fiducia nello Stato e nel nostro futuro, specialmente quando tra le divise blu hanno cominciato a spuntare i nomi italiani». Nel corso di una generazione sono diventati una valanga: il primo gruppo etnico all’interno del corpo di polizia newyorkese, mentre i loro figli affollavano le università cittadine e i posti di lavoro più ambiti. Nel 1950 tre candidati alla poltrona di sindaco erano italiani. «Ma con il successo - conclude Nardelli - è cominciata anche la trasformazione della comunità.  Gli italiani sono usciti dai quartieri tradizionali e si sono assimilati nel tessuto del Paese. La nostra presenza è solida».

Flavio Pompetti


Da Joe Petrosino sempre più poliziotti “italiani” a New York
Pochi giorni dopo la celebrazione del Columbus Day, nel piccolo parco che decora la punta meridionale di Manhattan, il dipartimento di polizia della Città di New York ha consegnato ad alcuni dei suoi membri più meritevoli l’ambito “Premio Petrosino”, che ricorda la memoria di uno dei nostri connazionali più conosciuti in America. Giuseppe (Joe) Petrosino fu infatti il primo italiano a diventare ispettore nel corpo di polizia newyorkese e più tardi fu promosso luogotenente, in riconoscimento della sua attività di lotta alla “Mano Nera” che appestava allora la città. Nel 1909 fu inviato a Palermo per indagare sull’espatrio di sospetti mafiosi verso gli Usa e lì fu ucciso da una mano ignota un mese dopo.
Il suo esempio è stato seguito da molti e la presenza degli italo-americani tra le divise blu della NYPD è cresciuta in modo esponenziale a partire dal secondo dopoguerra. Oggi quattro su dieci dei poliziotti newyorkesi hanno un nome che rivela le origini italiane, così come accade per altre popolose città americane come Philadelphia, Chicago e San Francisco.
La comunità dei nostri ex compatrioti e dei loro discendenti rappresenta oggi il quinto gruppo etnico negli Stati Uniti e nel più recente censimento ha fatto registrare una presenza di 17,9 milioni di persone, che equivale al 6% della popolazione. Una comunità enorme, che è talmente integrata ad ogni livello da essersi spesso lasciata alle spalle sia la conoscenza della lingua sia la coesione etnico-sociologica. Valori che oggi, però, ricominciano ad imporsi.

F.P.

01/11/2008