Anacleto Flori

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L’analisi e le ricette di un esperto di diritto del lavoro, Pietro Ichino, per superare il fenomeno dell’assenteismo nel pubblico impiego, tra scarsi controlli, mancanza di motivazioni e responsabilità del management

La stagione invernale è ormai alle spalle con il suo carico di raffreddori e febbri influenzali, ma la polemica sulla cagionevole salute dei dipendenti statali e sulla frequenza delle loro assenze dal lavoro non si è ancora spenta. E, come se non bastasse, oltre al clamore suscitato dal caso del giudice del tribunale di Vicenza, condannata per avere partecipato a una regata di barche in Gran Bretagna durante il periodo di assenza dal lavoro per malattia, le polemiche sono state nuovamente alimentate dalla pubblicazione dei dati Istat che fanno attestare al 20,1% il tasso di assenze complessive (malattie, aspettative, legge 104 per assistenza a invalidi e disabili eccetera) nel comparto pubblico: il 54% in più rispetto alla media nelle grandi aziende (ferma al 13,1%).  Ma per gli incorreggibili, e fino a ora inamovibili, fannulloni, che gettano discredito su una intera categoria di lavoratori, qualcosa, però, sembra essere cambiato. A infrangere il tabù del licenziamento di dipendenti pubblici ci ha pensato dapprima la Provincia di Bolzano (cinque impiegati licenziati per ripetuti episodi di assenteismo) e più recentemente l’Istituto di previdenza del settore marino (Ipsema) che ha licenziato un proprio dipendente dopo sei mesi di ingiustificate assenze dal lavoro. Proprio a partire da quest’ultimo, storico provvedimento, e dalle iniziative preannunciate dal nuovo ministro della Funzione Pubblica e l’Innovazione, Renato Brunetta (via libera alle regole di mercato, incentivi economici, di merito e di carriera, ma anche severa applicazione delle leggi), Poliziamoderna ha chiesto un autorevole parere a Pietro Ichino, docente di diritto del lavoro presso l’Università statale di Milano.

Nel suo libro “I nullafacenti” lei avanza la proposta di rendere effettivo il meccanismo di licenziamento dei dipendenti pubblici, in caso di gravi mancanze. Che ne pensa dello storico licenziamento di un impiegato da parte dell’Ipsema?
Fino a ieri, nelle nostre amministrazioni pubbliche per essere licenziati occorreva essere stati condannati in via definitiva a lunghe pene detentive per reati gravissimi. Questo era ed è profondamente sbagliato: il licenziamento disciplinare è una sanzione che deve poter essere irrogata, nel settore pubblico come in quello privato, anche per mancanze gravi che tuttavia non costituiscono reato; comunque la sanzione deve poter essere irrogata anche prima e indipendentemente dalla condanna in sede penale. Il recente caso Ipsema è un segno positivo: qualche cosa sta cambiando, nella direzione giusta. E mi sembra che nell’ultimo anno ci siano stati numerosi altri casi simili.

Nei mesi scorsi si è tornati a parlare di assenze record per malattia nelle amministrazioni pubbliche, molto più che nel settore privato. È un problema di contratti troppo permissivi o di scarso rigore dei controlli medici?
Vedo il difetto più importante nel comportamento del management: i dirigenti pubblici hanno le stesse prerogative dei privati, ma non le esercitano o le esercitano male. L’assenteismo si combatte prima di tutto motivando i dipendenti, dando loro gli incentivi giusti alla produttività e all’efficienza. Poi c’è anche il problema dei medici: medici di famiglia talora scandalosamente compiacenti, servizi ispettivi gravemente inadeguati al loro compito. Infine ci sono le leggi e i contratti collettivi: qualche cosa dovrebbe essere cambiato anche qui, per non favorire o addirittura premiare l’assenteismo abusivo.

Può servire l’introduzione o l’aumento di una franchigia retributiva sui primi giorni di assenza?
Sono molto favorevole a questa misura, che potrebbe essere combinata con l’autocertificazione per i primi due o tre giorni di malattia. Ma la si deve adottare in modo che tutti ci guadagnino, tranne gli assenteisti abusivi.

In che modo?
Si potrebbe reintrodurre il cosiddetto “periodo di carenza”: per le assenze fino a tre giorni, di regola, i lavoratori si “autocertificano” e non sono retribuiti. Fin dall’avvio della riforma, si calcola quanto il datore di lavoro risparmia, e si redistribuisce immediatamente l’importo in forma di aumento di tutte le retribuzioni. Per i casi di lavoratori che soffrono di infermità particolari, che li espongono a un’alta frequenza di assenze brevi, si prevede la possibilità di reintrodurre la retribuzione per queste assenze, previo accertamento della patologia da parte di un collegio medico nominato da imprenditore e sindacato.

La presenza in ufficio, però, non è sempre sinonimo di efficienza: come è possibile colpire i fannulloni e premiare chi lavora in un settore in cui è difficile quantificare la produttività?
I metodi di valutazione e misurazione della produttività, anche nel settore impiegatizio, hanno fatto enormi passi avanti rispetto a trenta anni fa. Nel panorama internazionale ci si offrono esempi eccellenti in questo campo, anche molto vicino a noi: penso alla Gran Bretagna, alla Svezia, all’Olanda. Il solo vantaggio di essere un Paese arretrato sta nella possibilità di sfruttare le esperienze dei Paesi più avanzati e bruciare le tappe, facendo in poco tempo il cammino che quelli hanno compiuto in decenni.

Parlando dei casi di inefficienza delle amministrazioni pubbliche, non trova che le colpe vengano troppo sovente scaricate sui livelli medio-bassi, dimenticando quelle di una classe dirigente spesso altrettanto inefficiente?
Sì. Il problema va affrontato incominciando dal vertice; anche perché la legge consente di rimuovere i dirigenti inefficienti o incapaci in modo relativamente più facile rispetto alla generalità degli impiegati. Occorre fissare obiettivi di efficienza e produttività ragionevoli, precisi e misurabili, verificare che essi siano raggiunti, premiare i dirigenti che vanno oltre gli obiettivi e rimuovere quelli che non riescono a raggiungerli. L’articolo 21 del Testo unico consente di rimuoverli indipendentemente da una loro colpa, per il solo fatto di un grave difetto di raggiungimento degli obiettivi.

Ma vorrà e saprà il mondo politico (ministri, governatori, sindaci e manager di aziende pubbliche) percorrere questa strada?
Quello che può costringere il vertice politico a farlo è la combinazione tra “internal audit” e “civic audit”: un valutatore indipendente, capace di misurare e di garantire la pubblicità di tutti i dati, in modo da mettere il fiato dell’opinione pubblica sul collo dei politici e del management pubblico.

Può essere più preciso?
Per realizzare questo occorre trasparenza totale: tutti gli obiettivi discussi attraverso un confronto pubblico anche con gli utenti, accessibilità on line dei dati sugli obiettivi fissati e su come giorno per giorno ciascun comparto dell’amministrazione li realizza o no; una stampa specializzata mobilitata per questo controllo.

Ci sono responsabilità e ritardi che si possono imputare al sindacato?
Se il vertice politico e il management avessero fatto il loro dovere, il sindacato non avrebbe potuto dilagare, nel settore pubblico. Certo, non basta che politici e dirigenti facciano sul serio il loro mestiere, ma occorre anche un sindacato che accetti la cultura della valutazione e della misurazione, quindi anche della differenziazione dei trattamenti, collettivi e individuali, fra chi lavora meglio e chi peggio.

In tutto questo, però, i dipendenti statali italiani restano tra i meno pagati d’Europa, e il Governo, almeno per ora, ha deciso di non estendere al pubblico impiego la detassazione degli straordinari...
Ridurre o addirittura azzerare le imposte sui redditi più bassi è giusto, ma incide solo marginalmente sulle retribuzioni effettive. Gli unici modi in cui si possono far aumentare sul serio e stabilmente tutti i livelli retributivi sono questi: aumentare la produttività del lavoro, quindi migliorare la scuola e aprirsi all’innovazione; aumentare la domanda di lavoro, quindi aprirsi agli investimenti stranieri e ridurre gli sprechi pubblici.

Un’ultima domanda: lei crede nella possibilità, oggi in Italia, di restituire davvero dignità, credibilità ed efficienza alle amministrazioni pubbliche?
Certo che sì. E credo anche nella necessità di un miglioramento delle condizioni di lavoro nel settore pubblico. Ma per questo è indispensabile introdurre in questo settore la cultura della trasparenza totale, che oggi è ancora assente, e quella della misurazione e della valutazione. Altrimenti, chi lavora bene e molto continuerà a pagare, e a pagare caro, per quelli che non fanno il loro dovere.

01/06/2008