Folco Quilici

Tesori da difendere

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Proteggere il nostro mare significa anche difendere e valorizzare gli innumerevoli reperti e le preziosità storiche che custodisce. L’archeologia subacquea ci insegna ad apprezzare questo museo in blu

Nei nostri mari, intorno alla penisola e alle nostre grandi isole, giace un tesoro infinitamente più ricco e raro di qualsiasi altro immaginato dalla fantasia dei romanzieri, raccontando di pirati e contrabbandieri.
Mi riferisco a beni a bordo di navi, inghiottiti nel corso d’oltre tre millenni, studiati dall’archeologia subacquea, una tra le più giovani scienze del nostro tempo, la cui nascita ufficiale risale a poco più di cinquant’anni fa.
In questo breve lasso di tempo, anch’io ho lavorato accanto a specialisti nella ricerca, e ho goduto dell’emozione d’assistere a ritrovamenti sensazionali; tra gli ultimi un carico perduto da una nave romana che trasportava grandi colonne marmoree.
Ma tralasciando le esperienze personali e le relative emozioni, voglio meglio sottolineare la parola tesoro. Nello scriverla, intendo non solo la preziosità dei reperti dal punto di vista del loro valore artistico (come i famosi “Bronzi di Riace” del V° sec. a.C. rinvenuti nel Mar di Calabria), ma anche i “documenti” che dal tempo antico ad oggi, ci permettono di conoscere sempre meglio la storia delle civiltà mediterranee.
Sono già migliaia i reperti individuati, e molti sono stati recuperati. Ma gli specialisti e gli studiosi ritengono che ad oggi si conosca, di questo tesoro, meno dell’uno per cento del suo totale. Restano infatti ancora da esplorare vaste distese marine nel Tirreno, nello Jonio e nell’Adriatico.
Una delle mie esperienze più emozionanti riguarda un giacimento archeologico lungo la costa siciliana.
«Laggiù sul fondo vedrai le più imponenti colonne fra quante sino ad oggi conosciute» – aveva premesso il Professor Giuseppe Voza, soprintendente alle Antichità della Sicilia orientale. Si riferiva a colonne di marmo localizzate nelle acque di Camarina, dove ci saremmo immersi con la sua autorizzazione. «In cambio riportami molte foto –chiese – serviranno per il Museo Archeologico». Museo al quale eravamo legati da un particolare rapporto, sia di lavoro che affettivo.
Eravamo sul fondale di Camarina, all’estremità meridionale della Sicilia. Difficile rendere a parole cosa si provi nel trovarsi di fronte, poggiate in fondo al mare, tre colonne gigantesche, una accanto all’altra di cui due spezzate.
Dalle misurazioni effettuate da esperti subacquei, risulteranno essere le più imponenti masse marmoree lavorate in età classica.
Per meglio fotografarle, con pazienza abbiamo anche ripulito un tratto della maggiore da alghe e parassiti e messo in rilievo alcuni punti che hanno permesso agli archeologi di classificarle: stile dorico.
Tra le altre meraviglie ritrovate sul fondo del nostro mare, vi sono le maestose colonne trasportate da una nave romana e finite in fondo al mare in un punto al largo della Costa Smeralda, nelle acque di Sardegna.
Mi sono immerso per fotografarle nel sito del giacimento, cogliendo immagini delle misurazioni. Il diametro della maggiore era pari alle colonne del Pantheon di Roma.
Sulla sabbia apparivano così com’erano state stivate sulla navis lapidaria che le trasportava e quella disposizione mi ha consentito di far eseguire, da esperti nelle ricostruzioni virtuali, un effetto tridimensionale, realistica finzione per consentire di immaginare la nave lapidaria in navigazione e vederne il carico posizionato nella stiva.
Da questi due esempi tra i tanti, credo risulti evidente l’importanza d’un continuo controllo svolto in primis dai reparti sub delle forze dell’ordine di questi beni, affinché non vengano saccheggiati.
Il danno non sarebbe solo economico, ma drammatico per la scienza; infatti rubare beni in fondo al mare significa cancellare informazioni preziose, anelli di conoscenza non solo nel campo della storia dell’arte, ma anche nella storia più remota e ancora poco nota e a volte addirittura controversa.
01/06/2008