Annalisa Bucchieri

Caccia grossa

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Dalle Sezioni catturandi fino al cuore del Servizio centrale operativo: come pensano e agiscono i poliziotti alla ricerca dei latitanti

Nitto Santapaola nel suo cardigan da campagnolo dimesso non ha più l’aria feroce da licantropo di Cosa nostra, Francesco Schiavone è piegato in due sotto il peso psicologico delle manette, Bernardo Provenzano è trascinato a capo chino dai poliziotti esultanti, Vincenzo Licciardi entra in questura con lo sguardo abbassato. Ecco la caduta degli dei del male, soffocati dall’umiliazione di essere portati a braccio dalle divise. Le foto scorrono dal lontano ‘92 in cui furono stanati Pietro Vernengo e Peppe Madonia fino ai giorni nostri con la cattura del boss di Corleone e la mega-operazione internazionale Old bridge: una lunga teoria di trofei di caccia di cui è tappezzato il corridoio del quinto piano del Servizio centrale operativo della Polizia di Stato, in arte Sco, inquadrato all’interno della Direzione centrale anticrimine diretta da Francesco Gratteri. Questo è il cuore pulsante della caccia ai latitanti, un cuore che non smette mai di battere e pompare sangue e ossigeno ai suoi organi periferici, le squadre mobili, presenti in tutte le questure italiane.

Il ruolo chiave del Servizio centrale operativo
Ogni squadra mobile competente su un territorio ad alta densità mafiosa prevede una Sezione catturandi che raccoglie i segugi migliori della polizia, uomini capaci di stare anni alle calcagna di quelli che il gerundio latino (“catturandi”) indica perentoriamente come gente che deve essere catturata. Lo sarà, è solo questione di tempo.
A raccordare il lavoro delle varie sezioni è il Servizio centrale operativo, come spiega il suo direttore Gilberto Caldarozzi: «Se la squadra mobile di Palermo sta seguendo le tracce di un latitante che portano in zona piacentina, avrà bisogno di una sponda alla questura di Piacenza, per cui sarà compito dello Sco creare un collegamento tra le due realtà di polizia. Oltre a coordinare le attività delle 103 squadre mobili, partecipiamo direttamente ad alcune delle operazioni più importanti, come la cattura di Provenzano». «Interveniamo sempre in ausilio agli uomini della Catturandi, mai in sostituzione, come viceversa fanno i federali dell’Fbi, – ci tengono a sottolineare i funzionari del Servizio – fornendo mezzi tecnologici, professionalità e risorse umane nei casi più complessi e delicati, ad esempio l’omicidio di Meredith Kercher a Perugia. Era coinvolto il mondo giovanile, l’università, gli stranieri, per cui nella ricerca di uno dei sospettati irreperibile abbiamo deciso di affiancare la squadra mobile umbra».

Due tipi di latitanti, due divisioni
I latitanti nel mirino dello Sco, infatti, non sono solo mafiosi ma anche feroci assassini, rapinatori, violentatori in fuga. Lupi solitari che si muovono e agiscono con modalità ben diverse dai padrini. Per cui lo Sco ha preso le sue contromisure biforcandosi in due divisioni operative: la prima che ha competenza per la criminalità organizzata di stampo tradizionale, Cosa nostra, ‘Ndrangheta, Camorra e cosche pugliesi; la seconda divisione che si occupa di primule rosse di criminalità comune, tra le quali anche stranieri che hanno commesso reati gravi nel territorio italiano. Spesso sono bande di albanesi e rumeni che si formano per il colpo, i poliziotti della seconda divisione le chiamano bande last minute: effettuano una rapina in villa e poi rientrano nel loro Paese. A quel punto viene coinvolta l’Interpol per stabilire un contatto con la polizia locale e iniziare indagini parallele e la caccia all’estero.

A ciascuno il suo
Alla Direzione centrale della polizia criminale (Dcpc) che riunisce in sé i servizi interforze, e quindi l’Interpol, confluiscono i risultati delle indagini degli hunters dello Sco come quelli dei Gico della Finanza e dei Ros dei Carabinieri, risultati che vanno a ingrossare le banche dati. È la Dcpc, inoltre, il referente organizzativo delle tre forze di polizia per la ricerca di criminali internazionali. Ma in fase investigativa ognuno è concentrato sul suo. Senza competizioni e tiri alla fune da letteratura giallistica. Chi tra polizia, carabinieri e finanzieri si deve occupare di chi? «Lo stabilisce l’autorità giudiziaria in base ad una sorta di competenza naturale – risponde Caldarozzi – Il team investigativo, che è già in possesso di elementi tali da poter essere sviluppati in un’indagine sul criminale dichiarato irreperibile in latitanza, si vedrà assegnata la ricerca. Di solito coincide con chi ha in carico il provvedimento restrittivo e difficilmente vi sono sovrapposizioni tra noi, i Ros o i Gico».

La strategia del “Consorzio”
Operare in solitaria non è comunque fruttuoso, gli strateghi dello Sco lo sanno ed evitano di lasciare gli uomini della Catturandi a preparare ami ed esche singoli. Il latitante è un pesce che cade nella rete, e la rete va tessuta a doppio se non triplo filo, partendo da punti lontani per controllare più spazio possibile. L’ultima è quella tramata tra squadra mobile di Trapani, di Palermo e prima divisione dello Sco, volta ad impigliare per sempre Matteo Messina Denaro, diventato, dopo la cattura del boss dei boss, il pericolo pubblico numero uno. «Questo gruppo di lavoro incrociato – spiegano gli ideatori – lo chiamiamo in gergo il Consorzio. È una tecnica che, applicata spesso per i sequestri di persona, ha dato finora i migliori risultati. Grazie anche al fatto che il Consorzio è dedicato esclusivamente a quella ricerca, le Sezioni catturandi che ne fanno parte non vengono mai distolte dalla caccia al latitante neanche in caso di un omicidio nella zona di competenza».

Quelli della Catturandi
Concentrarsi sull’obiettivo, avere tenacia, non mollare la traccia, sono le parole d’ordine degli uomini della Catturandi. Non chiamateli mastini, però. Sarebbe riduttivo, perché questo mestiere è fatto di tanto altro. Prima di tutto di inventiva: si tratta di trovare strategie e tecnologie sempre nuove, in grado di andare oltre a quelle che Csi, Ncis, Cold Case e fiction affini hanno già svelato ai telespettatori. Raramente uno strumento usato per un caso può essere replicato in un altro, anche i malviventi come gli sceneggiatori usano il passaparola. «Ormai persino il meno scaltro dei delinquenti –lamentano gli investigatori della polizia – sa che la varechina cancella le tracce di sangue o va a parlare nei luoghi pubblici per evitare le microspie in casa: così dobbiamo industriarci ogni volta a piazzare cimici nei luoghi più inusuali, dagli alberi ai cestini».
Ci vuole abilità psicologica. Essere capaci di entrare nella mente, nel cuore del latitante, ricostruirne il passato per precorrerne i passi successivi, mangiare, dormire, pensare come farebbe lui, captarne i punti deboli, quasi sempre gli affetti. Il camorrista Francesco Schiavone fu preso in Polonia in una casa in cui aveva dato appuntamento alla sua fidanzata, da tempo pedinata dagli investigatori.
Ci vuole esperienza del territorio in cui si nasconde il superfuggitivo. Bisogna conoscere il suo campo d’azione, i criminali della zona che possono essergli complici, le modalità comportamentali della popolazione, non ultimo i dialetti. Per braccare un latitante sardo, che è abituato a vivere in campagna tra anfratti montani impervi, è necessario avere personale che sappia muoversi in mezzo a boschi, grotte e ovili, più che avvalersi di un ispettore che ha trascorso anni in una grande città alla narcotici. «In posti come San Luca in Calabria o nel quartiere Brancaccio di Palermo – sostengono i funzionari dello Sco –capiscono che sei un poliziotto solo dal fatto che getti la cicca della sigaretta in maniera diversa da loro. Dobbiamo ingegnarci per mimetizzarci. Una volta mandammo uno della Catturandi di Catanzaro, appassionato ciclista, con la sua mountainbike a percorrere una strada collinare poco frequentata come un qualsiasi biker amatoriale: riuscì a vedere quello che doveva vedere senza farsi riconoscere».
Ecco perché è il dirigente della squadra mobile che compone sia nelle personalità che nei numeri la Sezione catturandi: ogni realtà provinciale ha le sue esigenze ed ogni latitante fa storia a sé. L’unica regola generale da seguire è mettere insieme professionalità diverse, dagli esperti di analisi dati ai pedinatori. Non esistono nella Catturandi uomini passepartout che fanno un po’ di tutto, ma solo poliziotti superspecializzati: gente che fa “ambientale” tutta la vita, passando le sue giornate al chiuso di una cabina insonorizzata con le cuffie alle orecchie, e sa percepire le sfumature di una conversazione in calabrese stretto, come gente in grado di rimanere 48 ore appostata al freddo dietro una parete di lamiera per strada senza mai farsi smascherare. I corsi di formazione per segugi di razza come questi servono a poco, la differenza la fa l’esperienza sul campo.

Lontani dai luoghi comuni
L’esperienza evita di ricalcare gli schemi investigativi, scivolare nei luoghi comuni porta a perdere le tracce. Non è sempre vero, infatti, che i latitanti di Cosa nostra rimangono radicati alla loro terra. Per esempio Vito Bigione fu preso in Venezuela. Non tutti conducono una vita molto agiata: alcuni furono rintracciati in ville lussuosissime, altri hanno preferito soluzioni spartane, Provenzano docet.
Il cambiamento dei connotati, a detta degli esperti, è roba da cinematografo, a loro non sono mai capitati casi di chirurgia plastica facciale. In fin dei conti basta il tempo a trasformare il volto di un uomo introvabile da venti anni, abbinato a qualche semplice camuffamento: un cappelletto, barba o baffi, occhiali da sole. Perciò si fa di tutto per includere nella Sezione catturandi qualcuno che ha visto il soggetto dal vivo quando non era latitante, magari perché lo ha arrestato in un’altra circostanza.
Infine non conviene affidarsi solo a mezzi ipertecnologici per intercettare le loro comunicazioni. A fronte di quelli che utilizzano telefoni satellitari ed e-mail, vi sono quelli che sono ritornati ai pizzini, strumento eccezionale per sfuggire alle ricerche.
La chiave della ricerca sta nel non avere fretta. E nei momenti in cui le indagini sembrano arenarsi ripassare nel corridoio del quinto piano a dare un’occhiata a quelle vittorie difficili, rendendosi conto che arriveranno altre foto a riempire gli spazi ancora vuoti. È solo questione di tempo.


Parla Renato Cortese, l’uomo che arrestò Provenzano

Quando mise le manette al capo di Cosa nostra, in un casolare a due chilometri da Corleone, Renato Cortese aveva esattamente gli stessi anni che Bernardo Provenzano aveva passato in latitanza: quarantatré. Per il funzionario dello Sco si chiuse quel giorno un ciclo importante della vita, e ne cominciò un altro. Oggi è dirigente della Mobile di Reggio Calabria, ma quell’esperienza gli è rimasta dentro: «Me lo faccia dire subito: quello della caccia ai latitanti è un mestiere bellissimo. Regala emozioni forti; quando si arriva al momento di una cattura attesa da anni, ti passano davanti agli occhi tutti i mesi trascorsi nella caccia, i sacrifici, le gioie. È un mestiere impegnativo, certo. Perché non c’è famiglia, non ci sono feste, non c’è il famoso 8-14, l’orario di servizio che alla fine molli tutto e vai a casa. Se devi stare addosso a una persona che non vuole farsi individuare e magari fa un movimento ogni sei mesi, in quel momento tu devi essere lì a percepirlo. Ma voglio dirlo anche ai giovani che si avvicinano a questo lavoro: quello della ricerca dei latitanti è il mestiere più bello che c’è».
Quali sono le emozioni della vigilia di una cattura?
L’investigatore che va a caccia di latitanti dovrebbe mantenere la stessa freddezza del primo giorno di indagine fino alla vigilia della cattura, però poi sul campo è diverso. Quando si vedono le tessere del grande mosaico che lentamente prende forma, allora la tensione comincia a salire insieme all’adrenalina degli uomini impegnati nella caccia; tutti sentono che il momento magico della cattura si sta avvicinando. In quei momenti è più difficile mantenere la calma, ma è ancora più necessario.
E le ultime precauzioni?
Ogni operazione è diversa; cambiano i timori e le preoccupazioni. Se ne parla nell’ultimo briefing, quando devono essere prese in considerazione tutte le possibili varianti dell’operazione. Nel caso di Provenzano la nostra paura era che all’interno della masseria ci fosse una via di fuga sotterranea, una specie di cunicolo che lo portasse lontano. Così pianificammo di fare una cinturazione della masseria la più larga possibile, per avere una chance di bloccarlo una volta risalito in superficie. Ma per fortuna non c’era nessun cunicolo.
Come si sceglie il commando che entrerà in azione?
Direi che vengono scelti gli uomini a seconda delle esigenze dell’operazione: l’agente fisicamente prestante è utile per sfondare la porta, quelli agili e veloci possono sostenere un inseguimento a piedi in caso di fuga, e così via. In ogni caso, direi che la regola generale vuole che il gruppo che ha la soddisfazione di partecipare all’azione finale, alla cattura, è solitamente scelto tra gli uomini più in gamba e con maggiore esperienza della Sezione.
Massimo Martinelli


Come si diventa ufficialmente “irreperibili in latitanza”
Il giudice per le indagini preliminari emette una misura restrittiva, ad esempio un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, nei confronti del soggetto.
La procura generale del tribunale competente emette l’ordine di esecuzione della sentenza.
La polizia giudiziaria cerca il condannato al suo domicilio. Se non lo trova, emette un verbale di “vane ricerche”.
Dopo uno o più tentativi, a seconda del reato e della decisione del giudice, il tribunale di sorveglianza, quello che si occupa delle reclusioni, dichiara lo stato d’irreperibilità del condannato.
La dichiarazione di latitanza viene inviata agli organi di polizia competenti per territorio e a quelli che possono avere notizie del condannato.
C.M.


Approfondimenti

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01/04/2008