Giulia Bertagnolio

Maestri di identikit

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Dare un volto ai criminali è il primo passo per poterli catturare. I segreti delle ricostruzioni e dell’age progression spiegati dai disegnatori della Polizia Scientifica.

Disegnare il volto dell’autore di un reato (del quale la polizia non possiede immagini) basandosi sulle descrizioni di vittime o testimoni. Oppure ricostruire i lineamenti del viso di un latitante a partire da una fotografia scattata a distanza di anni, tenendo conto del progressivo invecchiamento del corpo umano legato al passare del tempo. Infine tracciare occhi, naso, bocca, zigomi e rughe della persona così come il “disegnatore forense” li ha immaginati sulla base delle informazioni raccolte, e dare nuovo impulso alla caccia all’uomo. È un lavoro complesso fatto di intuizioni, ponderazioni, abilità artistiche e approfondite nozioni di psicologia, quello degli agenti del Servizio Polizia Scientifica impegnati nella sezione identikit. Sebbene nota al grande pubblico per via dell’intensa esposizione mediatica in fiction televisive e casi di cronaca, la tecnica della rappresentazione grafica di un ricercato è ben più complessa di quanto possa apparire ai non addetti ai lavori: non si tratta di mettere insieme le sole nozioni di cui si è in possesso e tentare mediante il tratto di avvicinarsi il più possibile all’immagine reale del soggetto, ma di un vero e proprio studio delle condizioni climatiche e ambientali alle quali si ritiene possa essere stata esposta la persona, degli effetti di eventuali malattie, del tipo di vita condotto e di una serie di altri parametri che i poliziotti in camice bianco analizzano a dovere prima di iniziare a disegnare. Non è tutto. Siccome le descrizioni rese da vittime o testimoni rappresentano quasi sempre un elemento chiave per la costruzione di un identikit, è essenziale che l’attendibilità di quei racconti sia valutata preventivamente dagli agenti. Impresa non facile, dal momento che com’è noto le dichiarazioni di “chi ha visto” possono essere inquinate da una lunga serie di fattori, in primis l’eventuale trauma subìto o il trascorrere del tempo. In un quadro simile non stupisce che la collaborazione tra psicologo e artista forense costituisca un nodo essenziale nel percorso di avvicinamento alla verità: permette di condurre il testimone verso la corretta elaborazione di ciò che ha visto e, subito dopo, verso l’esposizione appropriata delle cose. Consente di isolare i fattori fuorvianti, di isolare la suggestione dalla realtà. Fa sì che il disegnatore sia messo nelle condizioni migliori per ipotizzare le fattezze del ricercato, e poi per rappresentarlo.
Ciò che per i poliziotti della Polizia Scientifica rappresenta un’ovvietà (e per gli altri una necessaria premessa) è che la tecnica nota a tutti come identikit si suddivide in due grandi filoni tra loro distinti: la “composizione del volto”, che consiste nel tentativo da parte dell’artista forense di disegnare il viso di un ricercato di cui non si hanno foto, e la cosiddetta age progression che riguarda gli effetti del passare del tempo sull’uomo e si basa su immagini non recenti della persona, quando sono le uniche a disposizione delle forze dell’ordine. Ha lavorato sul secondo modello Andrea D’Amore, agente che opera nei laboratori della Direzione Centrale Anticrimine a Roma, quando ha disegnato il volto di Bernardo Provenzano, di cui gli agenti avevano solo una foto segnaletica scattata negli Anni ’60. Durante la latitanza del boss, i lineamenti tracciati con sapienza e precisione dall’esperto disegnatore della polizia fecero il giro del mondo. Furono mostrati a collaboratori di giustizia e a comuni cittadini nel tentativo di ottenere maggiori informazioni sul Padrino. Una volta preso il capoclan saltò agli occhi di tutti l’incredibile somiglianza tra il disegno che per anni era stato l’unica immagine del super ricercato e il vero volto di Provenzano. “Tutto ciò di cui disponevo erano alcune foto di parenti del boss dei boss – spiega D’Amore – oltre a un’immagine vecchia di Provenzano e alle descrizioni rese da uomini come Brusca e Giuffrè una volta chiusa la latitanza. Cercai di mettere insieme tutti gli elementi e nel ’97 m’imbarcai nell’age progression. Ogni volta che veniva preso un latitante e questi decideva di collaborare realizzavo un aggiornamento del volto di Provenzano sulla base delle nuove informazioni acquisite. In tutto le grandi revisioni sono state tre”. Durante il suo lungo e complesso lavoro D’Amore ha dovuto tener conto di moltissimi fattori capaci di incidere nell’aspetto fisico del Padrino: il fatto che aveva avuto un tumore, che assumeva un certo tipo di farmaci, che conduceva un determinato stile di vita. “Non conoscevamo con esattezza lo stato d’avanzamento della malattia – spiega – dunque ho dovuto tentare un’approssimazione. Sapevamo però in che condizioni climatiche viveva quell’uomo, le medicine che prendeva”.
Alla Scientifica spiegano che, quando vittima o testimone sono traumatizzati, lo psicologo è chiamato ad affiancare il disegnatore durante la “composizione del volto”. L’esperto della mente seguendo un protocollo ad hoc cerca di condurre chi parla verso il corretto ricordo di un evento e di un viso, mentre l’artista forense siede a poca distanza e nel frattempo avvia la rappresentazione. “Posti di fronte a una stessa persona, soggetti diversi possono notare e dunque successivamente ricordare particolari differenti – spiega Emanuela Tizzani, psicologa e direttore tecnico del Servizio Polizia Scientifica – senza contare che le percezioni variano anche in base allo stato emotivo di chi osserva e alle sue capacità descrittive. Non ci sono dubbi: la difficoltà maggiore che s’incontra nel realizzare un identikit sta nel decodificare e “filtrare” le impressioni, riuscire a trasporle senza distorcerle da un codice all’altro, dal visivo al verbale fino alla grafica. A complicare il tutto possono subentrare altri fattori come le condizioni di visibilità non sempre buone in cui il testimone ha osservato la persona o la sua poca serenità emotiva in quel momento, i mutamenti che i ricordi subiscono nel tempo. “Come se non bastasse può accadere di non riuscire a descrivere con linguaggio appropriato ciò che si è visto, di non riuscire a razionalizzare il proprio pensiero – continua Tizzani – ecco perché a volte è necessario tentare di riprodurre a distanza di tempo le condizioni psico-fisiche in cui una persona si trovava nella circostanza che è intenta a ricordare, perfino gli odori percepiti in quella situazione”. Importantissimi in questa fase anche alcuni piccoli accorgimenti, come quello di non far sedere nessuno (nemmeno l’artista o lo psicologo) di fronte a chi racconta, per far sì che questi non sia influenzato dall’aspetto fisico di terzi durante l’opera di ricostruzione. Si chiama “intervista cognitiva” la sequenza di domande poste dallo psicologo al testimone perché si arrivi ad un racconto verosimile. “Serve attenzione massima ad ogni dettaglio – precisano Tizzani e D’Amore – ogni affermazione dev’essere passata al setaccio perché ogni frase, se fuori posto, può risultare fuorviante”. Quando ci si accorge di essere lontani dalla pista giusta bisogna ricominciare, con pazienza, e ripartire dal primo tratto. Sgombrando la mente da preconcetti. Tentando di avvicinarsi ancora una volta, attraverso il disegno, a quel volto ignoto.


Dal volto al dna, Edgar Bianchi non ha avuto scampo
È stato incastrato nel 2006 grazie al supporto fondamentale della tecnica dell’identikit Edgar Bianchi, noto come “il maniaco dell’ascensore”, che a Genova aggredì venticinque studentesse nel giro di due anni, a partire dall’autunno del 2004. Condannato a 14 anni e sei mesi e costretto a sborsare 30 mila euro come risarcimento, il giovane era stato descritto minuziosamente alle forze dell’ordine dalle sue vittime, tutte ragazzine dalla corporatura esile di 13/14 anni. Le adolescenti avevano parlato di un giovane alto circa un metro e ottanta, muscoloso e magro, con i capelli lunghi e chiari raccolti in un codino che le aveva seguite nel portone di casa e poi nell’ascensore per palpeggiarle o masturbarsi. Dell’uomo la polizia era riuscita a tracciare un identikit quasi perfetto. Dopo una sfilza di controlli da parte delle forze dell’ordine (più di dieci le persone fermate in due anni con caratteristiche corrispondenti a quelle dell’identikit), ad inchiodare il maniaco sono state le analisi condotte su alcune tracce di sangue e di sperma lasciate dal ragazzo. Elementi dai quali la Polizia Scientifica ha rilevato il Dna.

01/03/2008