Francesco La Licata

Il Vangelo secondo Cosa nostra

CONDIVIDI

Più di novanta immagini sacre trovate nel nascondiglio di Bernardo Provenzano e un boss, Pietro Aglieri, che in carcere studia teologia. Ecco come i capimafiainterpretano la religione cristiana e i suoi simboli

Una leggenda newyorkese racconta il “dolore” del boss Carmine Galante, meglio conosciuto come Lillo The Cigar, di fronte alla bacheca vuota della parrocchia dell’Assunta, violata da ladri sacrileghi. Era molto arrabbiato, il padrino. “Non c’è rispetto neppure per la Madonna”, sibilò Lillo, accompagnato da ampi gesti di consenso del parroco e dei maggiorenti della Congregrazione, che, prima di rivolgersi alla polizia, avevano creduto bene di chiedere un più autorevole intervento.
Raccontano i vecchi superstiti di quell’epoca d’oro di Little Italy  che il boss lanciò un ultimatum: “Riportassero indietro fino all’ultimo ex voto e sapremo perdonare, come padri di misericordia. Ma se così non sarà...”. Inutile aggiungere che la mattina successiva un anonimo postino consegnò un pacco di particolare valore che ridiede il sorriso al parroco e all’intera confraternita.
Vecchie storie superate, ironizzerà qualcuno. Oggi è un’altra cosa, credete ancora che il mafioso vada appresso ai santi, al sentimento religioso, alle processioni e alle Congregazioni? E invece c’è poco da sorridere e ancor meno da ironizzare. Il mafioso è tornato a Dio. Ovviamente a modo suo, più per riconquistare un appeal perduto, un consenso offuscato negli anni della follia violenta, che per obbedire ad un vero afflato religioso. E il “vescovo” di questo ritorno alla via evangelica è proprio lui: Bernardo Provenzano, il più duttile dei capi corleonesi, il teorico della “pace che unisce” in contrapposizione alla “guerra per ottenere la pace”. Certo, lo avete visto nei film per la televisione: le tre croci al collo baciate prima di ogni decisione importante, i santini, il calendario di Padre Pio, l’immaginetta di Gesù in croce. Non c’è invenzione in questa ricostruzione. Provenzano ha curato nei particolari, per quasi 15 anni, la propria icona di “gran sacerdote” di Cosa nostra. Ha scelto – almeno alla fine – una vita semplice, quasi francescana. Il mangiare dei poveri: la cicoria, il miele, la ricotta col siero. Una casa dignitosa ma senza l’ombra del lusso e della tecnologia. L’unico cedimento era quel televisore antiquato che concedeva immagini “nevose”, come la tv degli anni Cinquanta. Come se la “salvezza” la si potesse cercare soltan ...


Consultazione dell'intero articolo riservata agli abbonati

01/02/2008