Giulia Bertagnolio

Dimmi la verità

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Inventato in Italia e utilizzato largamente negli Stati Uniti, il poligrafo non smette di accendere dibattiti e di suscitare critiche

Mettere a nudo chi dice bugie tramite il monitoraggio dei suoi stati emotivi, arrivare alla verità attraverso la misurazione delle reazioni fisiologiche di chi parla. Venire a capo, grazie all’uso delle macchine e alle capacità interpretative dell’investigatore, di piccoli indicatori capaci di segnalare all’analista esperto se un testimone racconta fatti davvero accaduti oppure falsità. Con quest’obiettivo è nato in Italia il lie detector, il poligrafo; primo sistema biometrico a scopo di sicurezza ideato dall’antropologo, criminologo e giurista Cesare Lombroso. Uno strumento ampiamente sfruttato negli Usa e in diversi altri Paesi tra cui Giappone e Pakistan, che però nella cultura investigativa italiana oggi non trova spazio. Ad analizzare ragioni e conseguenze della mancata applicazione di un “metodo potenzialmente molto efficace”, sono stati Francesco Sidoti, docente di criminologia, e Angelo Rosario Casto, funzionario della Polizia di Stato,  nel libro La macchina della verità. Un testo, con prefazione del direttore del Servizio polizia scientifica Alberto Intini, che scava negli aspetti tecnico-scientifici relativi all’utilizzo del poligrafo offrendo numerosi spunti di riflessione. Si parte da una considerazione apparentemente banale, ma cruciale per chi si occupa di indagini: l’ammissione di colpa non è mai da considerare la “madre di tutte le prove”. Al contrario, spesso è elemento fuorviante. Assodato che non va ritenuta sempre credibile una confessione, va da sé che strumenti giudiziari delicati ed estremamente suscettibili di interpretazioni ...


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01/12/2007