a cura di Maria Grazia Giommi
In nome della Legge
[ Consiglio di Stato ]
Pubblico impiego: destituzione del dipendente
Il termine di novanta giorni entro cui, per effetto del secondo comma dell’articolo 9 della legge 7 febbraio 1990 n. 19, può essere disposta la destituzione del dipendente pubblico a conclusione del procedimento disciplinare, ha natura perentoria e decorre dalla scadenza del periodo di centottanta giorni da quando l’Amministrazione ha avuto notizia della sentenza penale irrevocabile di condanna per proseguire o promuovere il procedimento disciplinare stesso.
(Sez. VI – 20 luglio 2006 n. 4606)
Procedimento disciplinare a carico del pubblico dipendente
Le sentenze di patteggiamento non spiegano effetti extrapenali, ma, essendo equiparate ad una pronuncia di condanna, ex art. 445, comma 1 bis, cpp, legittimano (ed anzi impongono all’Amministrazione, anche in relazione al precetto di cui all’art. 97 della Costituzione) l’apertura di un’autonoma inchiesta disciplinare, onde accertare la rilevanza che i fatti ascritti al dipendente in sede penale possono avere sul rapporto di lavoro con particolare (ma non esclusivo) riferimento all’immagine e all’onorabilità dell’Amministrazione stessa. In particolare, i fatti che hanno dato luogo alla sentenza penale di patteggiamento devono formare oggetto di un’autonoma considerazione e la relativa sanzione deve essere irrogata sulla base di un separato giudizio di responsabilità disciplinare, senza che la ricordata sentenza penale patteggiata possa assurgere a presupposto unico per l’applicazione della sanzione disciplinare ovvero a parametro valutativo cui conformare la gravità della sanzione da irrogare. In altri termini, sebbene non possa revocarsi in dubbio che l’Amministrazione può utilizzare in sede disciplinare tutti gli atti dell’indagine penale (ivi comprese le ammissioni e la confessione dello stesso dipendente), spettando a quest’ultimo di indicare ulteriori elementi a suo discarico e di chiedere nuovi accertamenti, l’Amministrazione ha l’obbligo di valutare in maniera completa e autonoma tutti i fatti, nella loro interezza e senza farsi fuorviare dalla struttura dell’illecito penale, giustificando quindi con adeguata motivazione il provvedimento disciplinare ed esplicitando, puntualmente le ragioni per le quali ritiene che quei fatti – e dunque il concreto comportamento del dipendente – abbiano violato o esposto a pericolo il bene/interesse protetto in sede disciplinare (legalità, imparzialità e buon andamento degli uffici amministrativi, immagine e onorabilità dell’Amministrazione, in particolare).
(Sez. IV – 21 agosto 2006 n. 4841)
[ Cassazione penale ]
Associazioni mafiose e sorveglianza speciale: bastano i soli indizi
In tema di misure di prevenzione, in virtù delle previsioni di cui agli artt. 1 e 2 della l. n. 575 del 1965 è legittima l’applicazione della sorveglianza speciale della pubblica sicurezza sulla base della sola esistenza di indizi di appartenenza alle associazioni di tipo mafioso, in quanto, in tal caso, la pericolosità del proposto è presunta dal legislatore e non richiede, a differenza di quanto previsto per le misure di cui alla