Andrea Giuliano*

Una mano alle indagini

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Le impronte palmari sono spesso risolutive per le identificazioni difficili. Soprattutto ora che la Scientifica ha attivato un nuovo sistema digitale di rilevazione e archiviazione

Dare un nome di fantasia, sostituirsi a un innocente o incensurato con un documento falso, è cosa più comune di quanto non si immagini, il modo più sbrigativo per un delinquente di nascondere imbarazzanti trascorsi penali. Da più di un secolo, però, gli esperti dattiloscopisti italiani della polizia scientifica rilevando le impronte digitali riescono a smascherare gli alias di un impostore e a stabilirne l’identità vera. Un tempo effettuati e classificati manualmente, dal 2000 questi accertamenti si eseguono tramite Afis (Automated fingerprint identification system); un sistema dotato di sensori digitali, scanner e software di archiviazione sofisticatissimi con un’affidabilità quasi prossima alla perfezione, imbattibile per ora da altri metodi di identificazione.
Tuttavia vi è una nutrita letteratura criminologica sui delinquenti che hanno provato a eludere l’identificazione dattiloscopica tentando di alterare ciò che la natura ha impresso a guisa di sigillo immutabile. Individui che si pestavano le dita con martelli, tentavano di levigarsele su muri e pavimenti, ricorrevano all’uso di soda caustica o di acidi, si procuravano tagli o utilizzavano piastre roventi. Uno dei primi casi risale al marzo 1914 quando fu arrestato un certo Stingler. Si notarono impronte digitali minutamente bucherellate. A risolvere il caso fu Giovanni Gasti, funzionario di polizia, famoso per aver ideato la classificazione decadactiloscopica ancora in uso. Egli intuì il deliberato tentativo di alterazione; la su ...


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01/11/2007