Anna Costanza Baldry*
Mi ricordo, sì mi ricordo
Stress e traumi possono rendere difficile la testimonianza di un reato. Ma esiste una tecnica che aiuta la memoria a recuperare eventi e dettagli
È un pomeriggio d’inverno come tanti e, nonostante siano appena passate le 17, già le prime ombre della sera si allungano su una coppia di fidanzati. Parlano e scherzano lungo la strada che costeggia la pineta, quando due balordi sbucano dal nulla a bordo di uno scooter. Quello più alto e magro, pistola in mano urla alla coppia “Svelti, cacciate fuori i soldi o finisce male”, quindi afferra le banconote da 50 euro dalle mani dei due e fa per andarsene poi torna indietro, si avvicina alla ragazza e le strappa il cellulare dal collo. Il gesto provoca l’istintiva reazione del fidanzato; per tutta risposta il rapinatore gli punta la pistola in faccia mentre il complice grida istericamente “Sparalo, sparalo”. È questione di un attimo lungo un’eternità: l’uomo abbassa l’arma, sputa a terra e salta sul motorino che si allontana sgommando, con la targa coperta da un pezzo di cartone.
È lo scarno resoconto di una rapina, consumata in un lampo e vissuta come un incubo da due studenti che hanno scelto il momento sbagliato per fermarsi a chiacchierare un po’, prima di tornare a casa. Non si tratta però dell’unica rapina commessa in quel parco cittadino, a due passi dal centro. Per questo è importante che la denuncia raccolta dagli uomini del commissariato di zona sia il più dettagliata e precisa possibile: nel ricordo di quei pochi, frenetici istanti possono nascondersi indizi preziosi per le indagini degli investigatori ma anche particolari da portare in un’aula di tribunale, dove un posto di assoluta rilevanza è riservato proprio alle deposizioni e alle testimonianze di chi ha subìto o assistito a un reato.
Una delle maggiori difficoltà incontrate dagli inquirenti nell’acquisire testimonianze in grado di fornire elementi di prova credibili, cioè riferiti a fatti e circostanze realmente accaduti, ma anche precisi e ricchi di particolari, sta nella diversa capacità delle persone di ricostruire i fatti. Tanti sono gli aspetti individuali che possono incidere, in varia misura, sull’esito finale della testimonianza: intelligenza, personalità, competenza linguistica, attitudine all’osservazione, stato socio-economico e capacità di reagire allo stress emotivo.
Nel caso dell’ascolto di testimoni si cerca, stando attenti a non provocare ulteriori stress o traumi alle vittime, di acquisire informazioni attendibili non ancora a disposizione degli inquirenti. In molti casi infatti il testimone è il solo ad essere stato presente al momento del fatto o essere a conoscenza di nomi, eventi, circostanze utili ai fini dell’acquisizione della notizia criminis che deve essere corrredata del maggior numero di prove o indizi per poter richiedere il rinvio a giudizio.
Per questo lo stile di comunicazione deve essere necessariamente diverso da quello “inquisitorio” usato nei confronti di una persona arrestata o fermata perché sospettata di aver commesso un reato: in quest’ultimo caso gli investigatori cercano di ottenere una confessione o un’ammissione circa i fatti contestati, facendo domande per lo più chiuse, che prevedano risposte nette, come sì o no.
Quando gli appartenenti alle forze dell’ordine si trovano a dover redigere un verbale relativo a un testimone non reticente, che cioè intende collaborare, devono prestare particolare attenzione, oltre agli aspetti procedurali e giudiziari, anche a quelli relativi alla cosiddetta psicologia della testimonianza.
Chi, come un poliziotto ma anche un magistrato, un avvocato o un giudice, interviene nella fase del recupero del ricordo di quello che è stato visto o sentito lo deve fare cercando di recuperare il maggior numero di informazioni senza mai danneggiare il ricordo che il testimone ha dell’evento (che è già, per sua natura, parziale ed incompleto o addirittura fallace).
L’alta possibilità di errore è dovuta al fatto che la nostra memoria ha la funzione di recuperare quanto acquisito con l’esperienza. Quando una persona assiste a un reato o lo subisce, quasi mai è preparata o attenta all’evento: la dinamica dei fatti, ma soprattutto i volti, le voci, gli odori, i sapori, vengono recepiti in base alla capacità della persona di percepire in quel momento tali stimoli, di codificarli, e comprenderli e quindi di memorizzarli. Lo stato emotivo di quei particolari momenti (paura, ansia, stress) potrebbero inficiare il processo di acquisizione delle informazioni e anche quello di sedimentazione e ritensione in memoria. La capacità di recuperare fatti o eventi dipende, quindi, sia da come è stata immagazzinata l’informazione, dall’età della persona, da eventuali deficit cognitivi, dall’abuso di sostanze, da quante volte è stato rievocato il fatto, dall’importanza che il fatto ha per il teste, ma anche da quanto tempo è trascorso. La quantità e l’accuratezza dei ricordi dei testimoni oculari diminuisce infatti con il passare del tempo: già dopo poche ore dal fatto, per la memoria inizia un processo di decadimento che si stabilizza nel giro di alcuni giorni. Però a quel punto i dettagli più utili e importanti dal punto di vista investigativo possono essere andati persi per sempre.
In questi processi di recupero mnemonico un grande aiuto può arrivare dai principi dell’intervista cognitiva (vedi box), ideata nel 1992 da Ronald Fisher, professore di psicologia cognitiva presso la Florida international University nonché consulente dell’Fbi. Si tratta di una tecnica già ampiamente utilizzata dalla polizia di altri Paesi (in particolar modo negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Germania) e particolarmente utile per ridurre al minimo i rischi legati ai falsi ricordi, o agli “errori di memoria”, che possono spingere i testimoni a ricordare in maniera distorta qualcosa che non è mai accaduta o che è successa in modo diverso da quello che ricordiamo. Uno dei requisiti di fondamentale importanza, per un buon esito dell’intervista cognitiva, è quello di garantirsi la volontà di collaborazione del testimone stesso: alcune strategie mal si adattano in un testimone colluso con l’imputato o che ha un atteggiamento omertoso per paura delle conseguenze della sua deposizione.
Secondo i principi dell’intervista cognitiva chi raccoglie una testimonianza deve osservare precisi accorgimenti: alcuni di questi come incoraggiare il teste, se vuole, a chiudere gli occhi per facilitare il recupero nella memoria di immagini, colori, suoni, odori, sensazioni tattili oppure consentire al teste pause di silenzio che possono aiutare a recuperare il ricordo, possono apparire superflui ed essere considerati soltanto una “perdita di tempo” ma il tempo “perso” nell’ascoltare il teste e aiutarlo nel percorso del recupero delle informazioni potrebbe essere tutto lavoro risparmiato in seguito, quando per mancanze di prove o in presenza di prove non esaustive, potrebbe essere necessario fare un supplemento di indagini o dover di nuovo risentire le persone, aumentando stress, costi, energie per tutti.
In ogni caso, il successo della tecnica messa a punto da Fisher sta tutta nei numeri e nei risultati delle ricerche effettuate: basta pensare che i testimoni ascoltati con i principi del metodo dell’intervista cognitiva hanno fornito quasi il 58% in più di informazioni corrette rispetto a quelle fornite dai teste nel corso di un interrogatorio standard.
La risoluzione di un caso può essere legata proprio a quel particolare, a quell’immagine apparentemente irrilevante che il testimone conserva in qualche angolo remoto della mente. A volte sta a noi farli riaffiorare alla memoria.
* Criminologa del Dipartimento di psicologia della II università di Napoli
Cosa fare prima...
Iniziando l’intervista con un testimone e/o vittima di un reato:
1. ricordarsi sempre che il teste (testimone e/o vittima) è – a volte – l’unica fonte di informazioni di un reato: la sua deposizione può condizionare l’esito delle indagine e la raccolta di prove;
2. valorizzare il ruolo del teste, accogliendolo in un luogo, per quanto possibile, tranquillo;
3. concedersi un tempo necessario per condurre l’intervista senza mettere fretta o ansia al teste. Il testimone ha un ruolo diverso dall’imputato;
4. il tono di voce e la postura di chi fa le domande devono trasmettere oltre alla fermezza e alla professionalità, disponibilità e pazienza.
... e nel condurre l’intervista:
1. chiedere esplicitamente al teste di fornire quante più informazioni possibili su quello che ha visto, sentito, senza aspettare che gli vengano fatte le domande;
2. fare domande prevalentemente aperte (che non richiedano come risposta un no o un sì); ricorrere a domande chiuse solo in riferimento a fatti o persone di cui il teste ha già fatto menzione, per chiedere ulteriori dettagli e precisazioni;
3. porre altre domande solo quando si è sicuri che il teste ha finito di raccontare un episodio, un evento, senza interromperlo. Se mentre sta parlando, vengono in mente cose da chiedere, è meglio appuntarsele per non dimenticarle e tornarci sopra successivamente;
4. consentire al teste pause di silenzio che possono avere lo scopo di recuperare il ricordo;
5. fare domande compatibili con il livello socio-culturale del teste (capire per esempio il livello di accuratezza del teste nel raccontare fatti ed eventi, facendosi raccontare altri episodi non legati al reato). Evitare terminologie tecniche, concetti complessi;
6. far rievocare attraverso le immagini mentali, e se necessario uno sketch grafico, l’immagine originale di quello che il teste ha visto e sentito (rievocazione cognitiva/mentale) e quali emozioni provava, come si sentiva (rievocazione emotiva);
7. incoraggiare il teste, se vuole, a chiudere gli occhi per facilitare il recupero nella memoria di immagini, colori, suoni, odori, sensazioni tattili;
8. incoraggiare il teste a raccontare quello che ha visto e sentito da prospettive diverse e nell’ordine inverso a quello in cui si sono svolti gli eventi;
9. scoraggiare il teste a “rispondere a caso” o “tirare a indovinare”; dire esplicitamente che se non si ricorda qualcosa non è un problema e può sinceramente dire “non mi ricordo”;
10. ringraziare il testimone dopo che ha finito di fornire la propria testimonianza.
E cosa non fare
1. Iniziare il colloquio dell’intervista facendo subito domande sull’evento, su quello che è stato visto o sentito, piuttosto che privilegiare un inizio più colloquiale;
2. dire che l’intervista durerà poco. Poiché non solo non si può sapere quanto durerà, ma è opportuno non dare informazioni distorte al teste che mal lo dispongono;
3. parlare velocemente e non prestare ascolto al teste perché si sta seguendo un proprio filo logico, un proprio schema di domande relativo a quello che solitamente si chiede o si deve sapere per quel reato per cui si procede;
4. interrompere il teste prima ancora che abbia finito di parlare e di esprimere un concetto oppure interromperlo troppo spesso solo perché all’intervistatore vengono in mente delle cose da chiedere; fare delle domande potrebbe spezzare il flusso del ricordo;
5. non fare domande suggestive (leading), cioè che “suggeriscono” la risposta già nella loro formulazione o fuorvianti (misleading) che contengono informazioni che non corrispondono alla realtà;
6. invitare prima il teste a ricordarsi di fatti e persone, ma poi non dargli il tempo di recuperare i ricordi;
7. controllare in continuazione l’orologio. Questo gesto mette il teste in uno stato di ansia, portandolo a limitarsi nel riferire le cose a sua conoscenza perché percepisce che “non c’è tempo”;
8. rispondere al telefono, avere persone che entrano ed escono dalla stanza. Si tratta di continui elementi di distrazione per il teste che sta già probabilmente sforzandosi cognitivamente per ricordarsi fatti, eventi, luoghi, persone;
9. stare in piedi o sulla porta quando si fanno le domande. Questo atteggiamento può indurre la sensazione che chi sta conducendo il colloquio è pronto ad andarsene o che non sta prestando troppa attenzione a quello che riferisce il teste. Bisogna ricordarsi che il testimone (soprattutto nel caso si tratta di un testimone e non di una vittima) pur assolvendo a un suo dovere, non ha nessuna motivazione a collaborare se non il senso del dovere e della giustizia. Per coloro che conducono le indagini il teste ha un ruolo chiave e va quindi tutelato e rispettato anche nei piccoli dettagli procedurali.