Gianluca Picardi
Il terzo occhio
Disseminate in molti punti delle nostre città, le telecamere sono fondamentali per prevenire e risolvere numerosi casi criminali. Anche se c’è chi lancia l’allarme-privacy
È il primo pomeriggio di un giovedì di fine aprile. Da un vagone della metro B di Roma escono concitatamente due ragazze vestite di bianco. Alle spalle si sono lasciate il corpo moribondo di Vanessa Russo ma nessuna impronta. In serata si sanno già nazionalità (romena), nomi e cognomi. E la domenica successiva si arriva all’arresto vicino a Macerata, appena in tempo visto che erano pronte ad espatriare.“A questo risultato lampo ci siamo arrivati grazie ai filmati – ammette Alberto Intini, all’epoca dei fatti capo della Mobile di Roma e ora direttore del Servizio polizia scientifica – Le telecamere a circuito chiuso della metropolitana capitolina, installate all’indomani degli attentati alla subway di Londra nel 2005, sono di elevato standard tecnologico e sono state piazzate numerose ad ogni accesso. Dalla registrazione abbiamo estrapolato diversi fotogrammi ad alta definizione dove erano chiari i tratti somatici delle due romene, corredati fra l’altro di orario di fuga. Ciò ci ha permesso di identificare le due ragazze la sera stessa. Persino nella fase della cattura i filmati si sono rilevati determinanti: trasmessi su tutte le reti televisive hanno consentito di avere notizie dello spostamento delle due solo 48 ore dopo”.
Libertà e controllo
La contrapposizione tra libertà e controllo che affligge le società occidentali ipertecnologizzate alla luce di questo episodio si rivela un falso problema: la videosorveglianza ha lavorato contro chi ha distrutto ogni privacy possibile, stroncando una vita. Quando la società attiva il terzo occhio, quello digitale, per scrutare gli angoli oscuri che albergano all’interno di se stessa e fare luce dove regna il buio della ragione e del senso civico, l’inconciliabilità con il diritto democratico decade. Ricalca questo concetto il sottosegretario all’Interno, Marcella Lucidi a un recente convegno sull’argomento: “Sicurezza è anche garanzia della privacy di ciascuno. La tracciabilità dei movimenti, la raccolta di informazioni individuali, l’uso delle telecamere nei luoghi pubblici sono metodi che non mettono in gioco le libertà delle persone se ci sono regole chiare. Questa è la logica con cui il ministero dell’Interno ha siglato i Patti per la sicurezza nelle città italiane”. Parole che risuonano come una risposta chiara all’annuale relazione allarmante del Garante della privacy Pizzetti, presentata in Parlamento a metà luglio.
A fronte del rischio teorico di un abuso delle registrazioni video, mai finora verificatosi, pesano sulla bilancia dei “pro” numerosi eventi criminosi repressi grazie all’ausilio delle videocamere. Primi fra tutti le rapine, per il 70% delle quali si riesce a fare giustizia grazie alle videoregistrazioni come confermano le cronache degli ultimi mesi.
I casi risolti
Le immagini registrate nei circuiti chiusi di banche, supermercati, farmacie, sono un’ottima base di partenza per le indagini, persino quando il rapinatore agisce “travisato”, cioè si camuffa con passamontagna, cappucci, mascheramenti di diverso tipo. Come è possibile? Lo spiega l’ispettore Cettina Giurato dell’Uacv, l’Unità analisi crimine violento, che è riuscita ad aiutare i colleghi della polizia di frontiera di Civitavecchia ad incastrare un rapinatore di supermercati sebbene mettesse a segno i colpi bardato di sciarpa e cappuccio. “A volte è sufficiente poter scorgere la conformazione dell’elice dell’orecchio, unica per ogni essere umano quasi quanto l’impronta digitale, per poter identificare il soggetto. In questo caso, essendo coperto dal cappuccio del giubbotto non avevamo questo prezioso elemento”. Ulteriore difficoltà nel decifrare le immagini, e compararle con le foto segnaletiche di pregiudicati, possono essere l’angolazione aberrante di ripresa delle telecamere o le situazioni di illuminazione non ottimali. Però i filmati possono rivelare altri dettagli importantissimi del rapinatore, per esempio, se ne può calcolare l’altezza e definire la corporatura, nonché trarre informazioni dalla postura, dal suo modo di gesticolare e camminare. “Il nostro uomo – racconta la Giurato – aveva il vizio di avvicinarsi alla cassa per intimare la rapina facendo una specie di doppio passo. Ciò ha permesso di capire che era anche l’autore di altre rapine commesse nella zona, di ricostruire il suo modus operandi e di prevedere, quindi, dove e quando si sarebbe svolta la successiva, arrestandolo in flagranza di reato”.
Nessuna analisi antropometrica sui fotogrammi di un video può dare risultati sicuri al 100%, ma riesce sempre a fornire indizi significativi. Ne è una prova il successo ottenuto dagli uomini di Nicola Vitali, dirigente della Mobile di Parma, che sono riusciti a mettere le manette a fine giugno scorso ad Andrea Micci, nonostante quest’ultimo avesse preso la precauzione di infilare parrucca e pesanti occhiali da vista, prima di svaligiare la filiale della Cassa di risparmio di Ravenna. “Il rapinatore è stato 22 minuti dentro la banca per attendere l’apertura della cassaforte – osserva il dirigente – così le telecamere hanno avuto tempo di riprendere più angolazioni del volto camuffato. Abbiamo estrapolato i fotogrammi migliori e li abbiamo inviati alla Scientifica di Bologna. Qui gli esperti sono riusciti ugualmente a decifrare i dati antropometrici utili all’identificazione: la lunghezza del setto nasale, l’arcata sopraccigliare, la conformazione del volto e a scoprire fra l’altro che i capelli posticci coprivano una testa completamente calva. Poi è stato realizzato l’album fotografico con una dozzina di foto segnaletiche di pregiudicati i cui volti rispondevano ai parametri fisionometrici rilevati ed è stato sottoposto al vaglio di quei testimoni. Naturalmente ristretta la rosa dei sospetti l’abbiamo incrociata con altri dati, come i tabulati telefonici. Il Micci, pur essendo agli arresti domiciliari a Torino, dalle trasmissioni del cellulare risultava quel giorno a Parma. E subito dopo la rapina aveva preso un treno per rientrare a casa”.
Il fenomeno dei pendolari del crimine è abbastanza diffuso. Solitamente si spostano in treno da una regione all’altra, depredano un istituto di credito nei pressi della stazione e sono pronti a risalire su un Eurostar in partenza, appena finita l’operazione. Motivo per cui appena vengono estrapolati i fotogrammi più significativi di una rapina gli investigatori li inviano a tutte le Squadre mobili della nazione, a carabinieri e finanzieri, in modo da verificare se il soggetto è familiare in una regione diversa da quella dove ha commesso il reato.
Telesorveglianza per la legalità
Non stupisce che ovunque in Italia le prefetture stiano stipulando convenzioni con l’Abi, l’Associazione bancaria italiana, affinché le filiali degli istituti di credito migliorino la qualità delle apparecchiature, rendendole compatibili alla lettura delle sale operative delle forze dell’ordine e le posizionino in maniera strategica per gli investigatori. Indispensabile in tal senso il piazzamento della telecamera all’interno della bussola, la porta rotatoria d’entrata, perché immortala il momento in cui il rapinatore è ancora a volto scoperto prima di camuffarsi.
Sguardi digitali capaci di memorizzare le devastazioni degli ultras invasati sono stati resi obbligatori in tutti i grandi impianti sportivi di capienza superiore alle 10 mila unità dal “decreto antiviolenza Pisanu” del 2005. La loro utilità, dimostrata anche ultimamente dagli arresti degli hooligans beneventani che avevano messo a ferro e fuoco lo stadio dopo una partita con il Potenza, ha spinto l’Osservatorio delle manifestazioni sportive dell’Interno ad allargare l’obbligo agli impianti con capienza superiore a 7.500 persone. Meno dispendio di risorse umane, in primo luogo di poliziotti, e più possibilità di ottenere prove determinanti in sede dibattimentale.
Ricorrono agli occhi elettronici i sindaci per combattere la microcriminalità nei quartieri più caldi e per tutelare il patrimonio artistico. La recente bravata del colombiano che ha disceso Trinità dei Monti in auto non ha fatto titubare il sovrintendente comunale ai beni culturali Eugenio La Rocca: 25 milioni di euro stanziati per almeno 200 telecamere puntate sui monumenti della Capitale, posizionate in maniera ben visibile tale da scoraggiare i malintenzionati da atti vandalici. Mentre a Terni il questore si accinge a istallare per l’autunno la rete video nei punti periferici più “a rischio” della città, Bergamo ha completato il piano di monitoraggio della stazione e zone limitrofe collegandolo alla sala operativa della Polfer. Se per gli aeroporti il sistema di videosorveglianza ha finalità anti-terrorismo, nelle stazioni alla prevenzione degli attentati si aggiunge il compito di sventare la criminalità comune. Come hanno dimostrato i filmati della Polfer di Reggio Emilia e di Bologna che quest’estate hanno portato ad assoldare alla giustizia due stupratori notturni.
Nel Mezzogiorno dove il controllo del territorio è uno dei presupposti fondamentali per la diffusione della legalità, l’attivazione di una modernissima rete di telesorveglianza figura al primo posto nell’agenda del ministero dell’Interno e sarà presto realtà grazie a un finanziamento del Pon, il Programma operativo nazionale. La scelta va sicuramente sostenuta da altri strumenti di deterrenza, ma dove le risorse umane non arrivano – sia numericamente sia per impossibilità di mantenere lo stesso livello d’attenzione nell’arco delle ventiquattro ore – il terzo occhio dà un aiuto indispensabile. La sua efficacia “antiracket” viene sperimentata già da diversi mesi nella zona produttiva Agrigento-Aragona-Favara dove la prefettura agrigentina e l’Unione industriali del distretto si sono accordati per proteggere impianti e aziende da attacchi e intimidazioni con circuito di telecamere digitali hi-tech. Solo aumentando il livello di sicurezza si favoriscono nuovi investimenti produttivi in Sicilia, si legge nel protocollo d’intesa. Con il terzo occhio aumentano anche le “prospettive” economiche.
Spiati o protetti
È giusto moltiplicare le telecamere pubbliche per sentirsi più protetti? Il dubbio si ripropone ogniqualvolta prefetti, sindaci e questori firmano accordi per migliorare il livello di sicurezza estendendo la videosorveglianza nelle città, mentre dall’altro lato il Garante della privacy lancia l’allarme sui rischi che corre il diritto di ognuno di noi alla riservatezza. A sciogliere il nodo c’è sempre il sondaggio di turno che tasta la “pancia” degli italiani e quindi il loro livello di paura. Perché la percezione dei cittadini è un fattore imprescindibile dalle valutazioni politiche e può far pender l’ago della bilancia dei provvedimenti. Tra i sondaggi più recenti sull’argomento, quello estivo della Demos-Coop, che rimanda l’immagine di una sfiducia generalizzata nel prossimo. Il 60% degli italiani ritiene che “gli altri, quando fosse loro possibile, approfitterebbero di me e della mia buona fede”. E temono più che i “grandi delitti”, le minacce alla vita quotidiana, alla casa, all’incolumità personale. Così non sorprende la richiesta di estendere sul territorio la videosorveglianza un po’ ovunque, come vorrebbe l’86% degli intervistati. La crescita di tale componente, circa 5 punti percentuali in più rispetto al sondaggio Demos-Coop del 2005, è indubbiamente legata all’utilità di questo strumento per gli investigatori delle forze dell’ordine nella risoluzione di casi di cronaca nera. Lo conferma la risposta al quesito on line del giornale radio Rai all’indomani della cattura della romena assassina sulla metro di Roma: l’88% dei frequentatori del sito ha dichiarato di sentirsi più protetto che spiato dagli occhi elettronici. Ancora la sindrome del Grande fratello è lontana almeno quanto è vicino il timore di attacchi terroristici o di essere vittime di una rapina al supermercato. Per il momento la domanda di sicurezza degli italiani passa attraverso la disponibilità a ridurre la privacy.
01/09/2007