Anacleto Flori

Sfida alle mafie

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A lanciarla il presidente della Commissione parlamentare antimafia Francesco Forgione, che a Poliziamoderna dichiara intenti e strumenti adottati

Giovane (vista l’età media dei nostri politici), testardo (come lui stesso si definisce) e ricco di slanci ideali. Francesco Forgione, presidente della Commissione parlamentare antimafia, rappresenta la speranza di riscatto di chi non vuole arrendersi a convivere con la mafia. Del resto lui non è certo tra quelli che fino a qualche anno fa affermavano ancora che il potere mafioso non esisteva; lui quel potere lo conosce bene, fin dai tempi in cui denunciava le infiltrazioni delle cosche crotonesi nella costruzione della base militare di Isola Capo Rizzuto o del suo impegno come direttore di Telejato, la tv antimafia di Partinico. Lo abbiamo incontrato nel suo ufficio di Palazzo San Macuto alla vigilia dell’anniversario della strage di via D’Amelio.
A quindici anni dalla morte di Falcone e Borsellino, cosa rimane del loro impegno e del loro sacrificio?
E del sacrificio dei ragazzi della scorta, aggiungerei. Certo in quei momenti si è toccato il punto più critico del conflitto da parte di un potere mafioso che voleva tenere alto il livello di contrattazione con lo Stato. C’è stata però una reazione straordinaria da parte della società civile, delle istituzioni e dello stesso Parlamento con l’adozione di leggi fino allora impensabili. Purtroppo, come avviene ciclicamente nel nostro Paese, a questi momenti di reazione emotiva ne sono seguiti altri di riflusso, di silenzio. Di quella stagione rimane, però, viva la rottura dell’omertà sociale e, soprattutto tra i giovani, l’affacciarsi di una coscienza critica sul tema della legalità e della lotta alla mafia. Così come rimane l’ansia di verità. Ancora oggi poco e nulla sappiamo delle coperture politico-istituzionali che hanno reso possibile la stagione stragista del 1992 e quella del 1993, con gli attentati dinamitardi fuori dalla Sicilia. Per questo abbiamo il dovere morale verso il Paese ma soprattutto verso le vittime e i loro familiari di fare luce.
C’è un modo per riannodare le fila di quella coscienza?
Sì, restituendo una grande dimensione sociale ai momenti di lotta al potere mafioso. Penso alle manifestazioni di piazza dei ragazzi di Locri ma anche al coraggio dei commercianti di Lametia Terme che con la loro serrata si sono ribellati al pizzo. Non si può pensare di battere la criminalità organizzata esercitando esclusivamente un’azione giudiziaria. Serve una sorta di connessione sentimentale di gramsciana memoria tra azione giudiziaria e politica, dimensione preventiva e repressiva e grandi movimenti sociali.
A proposito dei ragazzi di Locri, non sempre lo Stato si è mostrato all’altezza del loro coraggio.
È vero, penso allo striscione “e ora ammazzateci tutti” che apriva il corteo all’indomani dell’omicidio Fortugno. Si è trattato di una domanda forte di rottura della solitudine sociale in cui versa il Mezzogiorno. È chiaro che in un quartiere a rischio, da quelli napoletani di Scampia e Secondigliano allo Zen di Palermo, ogni forma di aggregazione è un momento di contrasto al potere mafioso: un oratorio, un centro sociale o semplicemente una scuola rappresentano un luogo utile a sottrarre ragazzi e bambini alla violenza della strada, al fascino del boss da temere ed emulare. Lo Stato deve essere presente sul territorio con un sistema di diritti come il lavoro, la casa, l’assistenza sanitaria, l’istruzione pubblica in grado di prosciugare il brodo di coltura in cui i clan malavitosi accrescono il loro consenso. Bisogna contrapporre la cultura del diritto a quella dei favori e della “protezione” dietro cui si cela un ricatto che dura una vita.
Quali sono le priorità che la Commissione dovrà affrontare?
Prima di tutto ricostruire una mappa degli insediamenti mafiosi, dal Nord al Sud, e individuare il sistema delle relazioni a livello internazionale. Oggi le mafie sono diventate delle holding finanziarie transnazionali che muovono un fatturato di centomila milioni di euro. Di questa enorme cifra solo il 30-40 per cento serve per finanziare la normale attività criminale, il resto viene reinvestito nell’economia legale. Le aziende sequestrate ad esempio a una n’drina di Locri hanno sede a Milano, come a Berlino o nei Paesi dell’Est. È lo stesso scenario che ci siamo trovati davanti quando abbiamo sequestrato il cosiddetto tesoro di Ciancimino: da Palermo la pista portava a Roma, dove con quei soldi si pensava di acquistare il gasdotto russo che rifornisce l’Italia. È tale capacità di smuovere flussi enormi di capitali che oggi siamo chiamati a contrastare.
Dalle sue parole si ricava un’immagine molto diversa da quella classica del mafioso con la lupara.
Il vecchio mafioso chiuso nella sua masseria di campagna alla maniera di Bernardo Provenzano ha ormai lasciato il posto a una “borghesia mafiosa” dinamica, fatta di dirigenti, burocrati, amministratori e imprenditori; un potere economico in grado di condizionare non solo il mercato finanziario ma la stessa vita politica e sociale del Paese. Perciò siamo chiamati ad aggiornare tutti gli strumenti di contrasto a nostra disposizione, a partire da una nuova analisi sulla natura del potere mafioso.
A quali strumenti si riferisce?
Ad esempio a uno sforzo comune per unificare la legislatura: un Testo unico di norme antimafia, antiracket e antiusura. Bisogna spostare l’attenzione dal concetto di pericolosità sociale del mafioso a quello della pericolosità sociale dei beni e dei patrimoni della criminalità organizzata: scindere cioè le misure di prevenzione patrimoniale da quelle di prevenzione personale per essere in grado di colpire le mafie nella loro essenza quella di grandi holding economico-finanziarie. I mafiosi mettono in conto di finire in galera, anzi questo ne accresce il peso e la rispettabilità all’interno dell’organizzazione stessa, ma non possono tollerare che lo Stato sequestri i loro patrimoni. Ed è in questo terreno che si deve batterli: lo scorso 14 giugno abbiamo ascoltato il governatore della Banca d’Italia sul problema del riciclaggio. In questo stesso momento in Italia i processi in corso per riciclaggio sono sei, niente se pensiamo che ogni anno le forze di polizia e la magistratura mettono sotto sequestro decine e decine di società e milioni di euro. Per questo abbiamo proposto al Parlamento una sostanziale modifica delle procedure e della gestione dei patrimoni e dei beni confiscati.
Le lunghe attese per la riutilizzazione di questi beni non finiscono per vanificare gli sforzi delle forze dell’ordine e indebolire l’immagine dello Stato?
Si tratta di tempi intollerabili per un Paese civile. Dal sequestro alla confisca di un bene fino alla sua destinazione ad un uso sociale passano dai 10 ai 15 anni. Basti pensare alla villa di Sandokan (il boss Francesco Schiavone, ndr) a Casal del Principe (CE), con le sue scalinate, le colonne di marmo e le grandi piscine, un edificio che per tutti rappresentava il frutto dell’attività e della violenza criminale della camorra: che Sandokan fosse in carcere era un aspetto secondario rispetto al messaggio intimidatorio rappresentato dal fatto che a quattro anni di distanza dalla confisca, la villa fosse ancora lì in tutto il suo splendore, tranquillamente abitata dal figlio, dalla moglie e dalla madre del boss sotto gli occhi dei vigili e del prefetto. Senza contare che siamo di fronte a un crollo dell’attività di confisca dei beni, passati dagli oltre 1.200 del 2001 ai 130 del 2005. Certo è importante colpire i santuari finanziari della malavita, dobbiamo però stare attenti a non distruggere il tessuto economico-sociale del territorio; mi riferisco alla progressiva chiusura delle oltre 300 aziende sequestrate alla camorra a Napoli negli ultimi anni: non possiamo correre il rischio che in certe zone del Paese prenda corpo l’immagine del camorrista che dà e garantisce occupazione e dello Stato che al contrario la distrugge. Tanto per fare un esempio, un’azienda ben avviata che produceva mozzarelle, un minuto dopo il sequestro ha rischiato la chiusura perché ha improvvisamente smesso di ricevere il latte dai produttori e non ha più potuto avvalersi dei soliti canali di distribuzione, poiché tutto il ciclo produttivo era ormai controllato dalle organizzazioni criminali. Una volta sequestrate, dobbiamo mantenere in vita queste attività economiche, aiutandole a stare sul mercato e tutelando i lavoratori sull’esempio della Calcestruzzi Ericina, dove i dipendenti, successivamente al sequestro degli stabilimenti, sono riusciti ad assumere il controllo dell’azienda stessa.
Dopo alcuni anni ritorna la figura del commissario straordinario per la gestione dei beni sequestrati. Come mai?
Fino a qualche settimana fa il compito era affidato direttamente all’Agenzia del demanio, ma ritengo che fosse una scelta sbagliata. I beni di un mafioso hanno un valore simbolico dirompente, non possono essere messi sullo stesso piano di un pezzo di costa o di una fontana del ’500, per quanto bella e preziosa. Il demanio, per sua stessa natura, non è in grado di svolgere questo compito, senza contare poi le pressioni a cui viene sottoposto e l’esistenza di meccanismi corruttivi, così come è successo a Trapani dove i beni confiscati finivano per essere restituiti proprio agli stessi mafiosi. Per questo abbiamo impegnato il Parlamento a creare una struttura ad hoc che sia autonoma e abbia come propri terminali le prefetture, le questure e la Dia (Direzione investigativa antimafia, ndr).
La nomina del nuovo commissario straordinario, Antonio Maruccia, rappresenta un passo avanti importante in questa direzione.
Con quale spirito ha assunto la presidenza della Commissione?
Porto avanti questo incarico mosso dall’ansia di avere poco tempo a disposizione rispetto alle cose da fare. In poco più di cinque mesi la Commissione ha presentato al Parlamento due disegni di legge: uno, che ha già ottenuto il pronunciamento favorevole del ministero dell’Interno, riguarda il riconoscimento delle vittime della mafia, credo si trattasse di una grave e pericolosa lacuna che andava al più presto colmata. L’altro invece tende a modificare la legge sullo scioglimento dei consigli comunali per infiltrazione mafiosa. L’attuale normativa, che ha comunque portato allo scioglimento in Italia di 176 consigli comunali e due Asl, si limita infatti a rimuovere il sindaco o il consiglio e la giunta comunale. Con la nuova legge, i commissari prefettizi, che dovranno essere iscritti ad uno speciale albo presso il ministero dell’Interno, avranno non solo il ruolo di governo ma anche quello di rimuovere i vertici della macchina amministrativa, degli uffici urbanistici, dei dipartimenti dei servizi sociali: sarà così possibile colpire gli snodi del sistema di relazione tra le organizzazioni criminali, la loro attività imprenditoriale e la pubblica amministrazione. E anche i tempi devono essere certi, sia per l’accesso che per lo scioglimento.
Come pensa di spezzare l’abbraccio soffocante tra mafia e politica?
La Commissione ha appena approvato un codice etico per le elezioni comunali e provinciali, in base al quale i partiti saranno chiamati a non candidare nelle proprie liste i politici colpiti da rinvio a giudizio per tutti i reati legati a mafia, racket, usura, riciclaggio e traffico di rifiuti e sostanze stupefacenti. Certo mi piacerebbe che l’ineleggibilità etica si estendesse a tutti i livelli elettorali, Camera e Senato compresi, consapevole che per rompere il legame mafia-politica dobbiamo arrivare a una riforma politica e morale della società. Ricordando la necessità di garantire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, senza le quali la lotta alla mafia è inevitabilmente destinata a fermarsi alla soglia del potere sia politico che finanziario.
Un’ultima domanda, dove prende la forza di continuare la sua battaglia nonostante le minacce subite?
Dalla passione civile, dalla convinzione che se non sconfiggiamo la mafia ci arrendiamo a un’idea del Paese che negherà il futuro a intere generazioni, così come nega il presente. Ci sono momenti nella vita in cui la paura personale, che pure c’è, viene dopo: penso all’impegno e al sacrificio di uomini e donne delle forze dell’ordine, di magistrati, di dirigenti politici e di sindacalisti ammazzati chi per impegno sociale chi per lealtà nei confronti dello Stato; è su quest’intreccio virtuoso tra rappresentanti delle istituzioni e società civile che possono essere gettate le basi per una rinnovata stagione della lotta alla mafia. È un progetto su cui intendo mettere tutto il mio impegno personale, politico e civile ma anche la forza e la responsabilità del mio essere presidente.


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01/07/2007