Anacleto Flori
L’ultimo carcere
Un giorno hanno indossato la divisa delle forze armate o delle forze dell’ordine, ora si trovano in prigione. La vita dei detenuti dell’unico penitenziario militare rimasto attivo in Italia
Il frastuono del traffico cittadino cessa come per incanto quando la pesante porta carraia si richiude alle nostre spalle, rivelando lo scenario consueto di una caserma: mura di cinta tutt’intorno, palazzine basse e ben tenute, il piazzale dell’alzabandiera e ampi viali ordinati lungo i quali si muovono gruppi di giovani volontari in tuta mimetica. Quello che colpisce è la sensazione di assoluta tranquillità, mentre ci guardiamo intorno stupiti, cercando di trovare, al di là di alcune torrette di controllo che campeggiano in alto, qualche traccia evidente, i segni inequivocabili del carcere. E sì perché questa di Santa Maria Capua Vetere (CE) non è una caserma come tutte le altre, proprio tra le sue mura si trova, dopo la chiusura delle storiche strutture di Forte Boccea a Roma e di Peschiera del Garda (VR) l’ultimo penitenziario militare attivo.La prigione vera e propria è situata all’interno di un edificio su due piani, a ferro di cavallo, presidiato da soldati armati; qui i controlli diventano più rigorosi e, nonostante la totale assenza di tentativi di evasione, prima di entrare bisogna sottoporsi ad una accurata perquisizione. Una volta superata l’accogliente sala colloqui, dove tavolini e sedie hanno preso il posto della tavolata e del vetro divisorio, sono i lunghi corridoi intervallati da pesanti cancelli di ferro e le piccole celle, con tanto di spioncini e inferriate alle finestre, a suscitare nel visitatore il disagio psicologico, tipico di un luogo chiuso.
Qui i detenuti si trovano a condividere non solo la privazione della libertà e l’angusto spazio di una cella ma anche la stessa condizione esistenziale: quella di avere un giorno indossato una divisa, di essere stati per un periodo della propria vita dall’altra parte della barricata, dalla parte della legge e non dei malfattori. La popolazione carceraria di Santa Maria Capua Vetere (un centinaio circa di reclusi) è infatti composta non solo da persone provenienti dai ranghi dell’esercito, dell’aeronautica e della marina, colpevoli di reati militari, ma anche da appartenenti alle forze di polizia (poliziotti, carabinieri, finanzieri, forestali e guardie penitenziarie) che hanno volontariamente scelto, in base all’art.79 della legge 121/81, di scontare qui la loro pena, piuttosto che in un carcere civile.
“A quest’ora (sono circa le 10,30, ndr) le celle sono quasi tutte vuote – fa notare il direttore carcerario, il tenente colonnello Antonio del Monaco – perché dopo la sveglia (alle 7,00) e la celebrazione della Santa Messa i detenuti sono impegnati con i gruppi di lavoro per tutta la mattinata. Siamo infatti convinti che in un carcere che non vuole più essere inteso come luogo di segregazione, la condivisione di attività lavorative ma anche culturali e ricreative diventa un elemento rieducativo fondamentale”. Da qui la creazione di spazi comuni come la biblioteca, la palestra, la sala tv, la cappella, una mensa in cui guardie e carcerati mangiano lo stesso cibo, e perfino l’allestimento di una squadra di calcio, iscritta al campionato regionale di 3^ categoria, in cui giocano fianco a fianco, unico caso in Italia, carcerati, sorveglianti e perfino un magistrato. “Inoltre – continua il comandante – all’interno della caserma c’è anche un’area verde in cui i detenuti, in occasione di feste come il Natale o la Pasqua, possono trascorrere fuori dal carcere un’intera giornata con le proprie famiglie; famiglie molto spesso segnate da profondi processi di disgregazione a causa delle vicende processuali e penali. Ricucire con pazienza la trama dei tessuti affettivi gioca allora un ruolo fondamentale per la riuscita del futuro reinserimento: un aspetto su cui abbiamo puntato molto, organizzando, con il finanziamento della regione Campania, corsi di formazione professionale (giardinaggio e pittura) riservati al personale recluso ma anche auspicando l’apertura, proprio qui, di una succursale dell’Istituto alberghiero di Teano”.
Spirito di condivisione dunque, ma anche, per motivi logistici, alcune necessarie differenziazioni, come la creazione, ad esempio, di distinte sezioni carcerarie in cui trovano posto i detenuti militari, quelli delle forze dell’ordine e i condannati a lunghe pene detentive (gli ergastolani, a differenza degli altri, vivono in celle singole). Il recente arrivo di una detenuta, ha inoltre reso necessario l’allestimento di una sezione femminile. Anche le attività sono diversificate a seconda dello status giuridico di appartenenza: i militari di carriera svolgono per lo più esercitazioni ed addestramenti, perché nel loro caso la pena da scontare è finalizzata soprattutto al reinserimento nei rispettivi corpi. Discorso diverso invece per gli appartenenti alle forze dell’ordine, che sono per lo più impiegati nella manutenzione delle infrastrutture e nei servizi logistici della caserma (bar, mensa, casermaggio e magazzini). Ed è proprio qui che si riscontra la maggiore disparità di trattamento: mentre il lavoro dei detenuti provenienti dalle forze armate viene retribuito (la paga è quella di un ex soldato di leva), poliziotti, finanzieri, carabinieri, forestali e penitenziari, ormai smilitarizzati, lavorano a titolo gratuito e volontario (per loro non è possibile applicare il trattamento previsto dall’ordinamento penitenziario militare).
Intanto i primi detenuti, facilmente riconoscibili dalla tuta grigia a bande bianche, iniziano a rientrare per il pranzo: alcuni sono accompagnati da sorveglianti, altri invece arrivano da soli senza alcuna scorta: sono quelli che potremmo definire (citando Brubaker, uno dei più bei film sul mondo carcerario, interpretato da Robert Redford) gli affidabili; detenuti cui vengono spesso assegnati lavori di responsabilità e liberi di circolare all’interno della caserma senza particolari restrizioni.
“Quello della affidabilità è un vero e proprio attestato di fiducia – sottolinea Elisabetta Bosco, sociologa del Nucleo osservazione scientifico della personalità – concesso ai detenuti dopo un periodo di osservazione di una sessantina di giorni. Una scelta coraggiosa e responsabile da parte dell’amministrazione penitenziaria anche perché la decisione viene presa, tenendo conto soprattutto degli aspetti personali e comportamentali più che del tipo di reato commesso”.
Un atteggiamento di apertura, reso possibile dall’unicità dei reati commessi, dall’assenza cioè di recidiva: è come se le persone rinchiuse in questo carcere si siano trovate, a un certo punto della propria vita di fronte a una sorta di tragico “incidente di percorso”, con tutto il suo carico di dolorose conseguenze.
“Nella maggior parte dei casi – spiega infatti la sociologa – si tratta di delitti passionali o di reati commessi nell’esercizio delle proprie funzioni, da soggetti che si sono fatti in qualche modo contagiare dalla vicinanza dei comportamenti illegali. In ogni caso ci troviamo di fronte a persone che conservano anche in carcere una sorta di etica professionale, con dei valori morali che hanno, solo per un attimo, abbandonato: da qui anche l’incredulità, l’incapacità quasi di rendersi conto di trovarsi ormai dall’altra parte della barricata”. È il caso di Alfonso, un detenuto sulla cui onestà lo stesso comandate del Monaco metterebbe la mano sul fuoco: più di un decennio di polizia alle spalle, trascorso come esperto di motori presso l’autoparco della questura di Roma fino al momento dell’arresto e della condanna all’ergastolo per concorso nell’omicidio della moglie, da cui si era appena separato. Nessuno potrà restituire la vita a quella giovane donna e Alfonso ha pagato e sta pagando per questo. Ma anche a lui non è rimasto molto: non la gioia dei suoi figli, che non ha più rivisto dal giorno del suo arrivo a Santa Maria Capua Vetere, non il lavoro di poliziotto, che pure aveva rappresentato il coronamento di una passione coltivata fin da ragazzino, ma solo l’affetto immutabile e le rare visite dei suoi anziani genitori. Ora, dopo sette lunghi anni di buona condotta per lui si apre la prospettiva della semi libertà: intanto, tra queste mura, ha conosciuto un modo diverso di vivere e la speranza del perdono.
Perché per lui, come per tutti gli altri, alla fine c’è da fare i conti con un diffuso giudizio morale, difficile da sopportare: da un delinquente di strada, magari con un passato difficile ci si può attendere determinati comportamenti criminali, ma da un carabiniere o da un poliziotto, assolutamente no. Per alcuni può diventare una colpa imperdonabile che merita una doppia condanna, sociale prima ancora che penale.
Intanto tra storie di drammatica umanità e piccoli segnali di speranza, il giorno è scivolato via: la porta carraia cigola piano sui cardini, restituendoci all’abbraccio caotico della città. Per chi rimane al di là del muro, inizia l’attesa del controllo delle 22,30, quello che sancisce la fine della giornata: è l’ultimo rito quotidiano da poter condividere insieme agli altri. Poi è tempo di rimanere soli, con la propria coscienza.
“Catena militare” fu il primo
Si chiamava così il primo carcere in Italia destinato alla custodia di soldati di cui si ha conoscenza attraverso un “regio biglietto” del 1822. Sorgeva a Genova, presso i cui arsenali i detenuti lavoravano sotto la sorveglianza dei gendarmi della città e della Marina.
Ma è solo nel 1840, con l’emanazione del nuovo codice penale che si diffonde il termine di reclusione militare, la cui evoluzione porterà nel 1852 al concetto di rieducazione, grazie al quale i detenuti potranno produrre indumenti e oggetti da mettere in vendita e da cui ricavare la propria “mercede”. Seguirà poi la riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975 e la legge 121/81 che sancirà la possibilità per il personale delle forze di polizia di scontare, come scelta personale, la propria pena all’interno dei carceri militari, il cui numero, però, si è andato via via riducendo nel corso degli anni. Nel 1918 se ne contavano dodici, di cui ben undici di prevenzione, più un reclusorio militare a Gaeta; nel 1990 l’ordinamento penitenziario militare prevedeva tre carceri militari Roma, Peschiera del Garda e Santa Maria Capua Vetere e cinque sezioni distaccate, mentre con la ristrutturazione dell’ordinamento del 2005, l’unico carcere attivo rimane quello campano. Attualmente a capo della struttura carceraria di Santa Maria Capua Vetere, ospitata nella caserma “Ezio Andolfato” e con l’assetto ordinativo di un battaglione, c’è un comandante che è al tempo stesso direttore del carcere e delegato dell’autorità giudiziaria.
Gianluca Picardi
01/06/2007