La memoria ritrovata

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Un paese senza memoria è un paese senza futuro”, ha scritto un uomo saggio, dolente nel constatare che questa “constatazione” nei fatti ha spesso incontrato il vuoto. Un vuoto di memoria, appunto.
Ma la memoria, per fortuna, è dura a morire: chiede di riemergere con forza nella coscienza individuale e collettiva, si fa insegnamento, progetto, valore condiviso e irrinunciabile. Ecco allora che, sotto la spinta insistente del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il senso dell’accaduto, le ferite patite dal Paese e da molti suoi cittadini, spesso servitori dello Stato, riemerge prepotente, riaffiora e si riafferma in una ritrovata e diffusa volontà di ricordare per riaffermare il rispetto della vita, delle idee, delle storie individuali.
Sarà, ora per legge, il 9 maggio la giornata dedicata al ricordo delle vittime del terrorismo e delle stragi e, insieme, a quelle delle altre violenze che hanno insanguinato e continuano a infliggere colpi alla vita democratica del Paese.
“Mia madre ci ha sempre insegnato a non coltivare odio e rancore perché sono due sentimenti che si mangiano tutte le energie vitali e impediscono di fare cose buone”, ha detto Mario Calabresi parlando del suo bellissimo libro “Spingendo la notte più in là”, il racconto di un figlio – oggi affermato giornalista – che affronta il percorso seguito all’omicidio del padre Luigi, commissario di polizia. Mario Calabresi ne parla a Poliziamoderna di questo viaggio che è divenuto il simbolo di tante voci ridotte quasi al silenzio, imprigionate nelle maglie di una burocrazia sbrigativa nei gesti e lenta nel riconoscimento dei diritti.
Ricordare le vittime del terrorismo, intrecciare le loro storie di umiliazioni vissute con dignità e sacrificio significa ridare ciò che una smemoratezza collettiva – non maligna, non cinica e tuttavia insensibile – ha di fatto cercato di rimuovere. Ricordare le vittime significa anche non lasciare cadere nel vuoto del tempo passato il bisogno di verità che ancora avvolge una stagione lunga e sconvolgente. Ricordare le vittime significa anche rimettere a posto i conti individuali, al di là delle pronunce giudiziarie, aiutando chi si è sentito solo anche quando solo non è stato lasciato.
Troppe volte le voci dei carnefici, magari amplificate dalla macchina dei media, hanno ritrovato nuove ribalte per raccontare e raccontarsi, per dispiegare pentimenti che dovevano restare privati o per riaffermare le “buone ragioni” di scelte sciagurate. La voce delle vittime, di chi ha subito e pagato per la loro mancanza, tornano a tutti noi e ci ricordano che dimenticare diventerà impossibile.
01/06/2007