Cristiano Morabito
Eroi nel silenzio
A sessant’anni dall’Olocausto la storia di Angelo De Fiore, Funzionario della polizia che riuscì a salvare dai nazisti centinaia di ebrei
“Io ho incontrato solo spettri, donne, bambini, malati, incapaci di muoversi. L’aria che si respirava era asfissiante... sono passato davanti a scheletri accovacciati nella melma gelata. Quel giorno nessuno di noi si era reso conto di varcare un confine da cui non si ritorna”. Sono le parole di Yakov Vicenko, uno dei primi soldati della divisione ucraina dell’Armata rossa che il 27 gennaio 1945 entrò nel campo di concentramento di Auschwitz. Chissà cosa deve aver pensato il diciannovenne Yakov leggendo la scritta, voluta dal comandate del campo Rudolph Hoss, che campeggiava sul cancello di entrata e che recitava “Il lavoro rende liberi” (Arbeit macht frei). A posteriori verrebbe da dire “Quale lavoro – e soprattutto – liberi da cosa?”.
Quella scritta, quel cancello, quei binari ci sono ancora oggi. Ad Oswiecim (nome originario polacco) tutto è stato lasciato come sessant’anni fa, quando la furia nazista fece di questo anonimo paesino polacco al confine con la Cecoslovacchia il centro della sua macchina di morte. Qui più di due milioni di persone – in maggior parte ebrei, ma anche prigionieri politici, zingari ed omosessuali – furono avviate, chi dopo aver lavorato in condizioni disumane per mesi, chi immediatamente perché non utile alla causa del Reich, nelle camere a gas e poi sepolte in fosse comuni oppure bruciate nei forni crematori. Le ceneri venivano poi gettate nella Vistola, il fiume che scorre nelle vicinanze del campo. Qui il confine tra la vita e la morte era estremamente labile e veniva scandito sulla rampa che portava ai vagoni ferroviari piombati con semplici parole come “tu a destra, tu a sinistra”, che equivalevano a “tu ancora ci servi per un po’, tu invece puoi andare a morire subito”. I quaranta chilometri quadrati recintati dal filo spinato elettrificato e divisi tra baracche, magazzini, locali “docce” e forni crematori di Auschwitz-Birkenau sono ancora lì, in un silenzio innaturale che fa sentire il suo rumore assordante, per non dimenticare quanto accaduto sotto il regime del terzo Reich.
Sono in molti, quasi sei milioni, gli ebrei trucidati nei campi di sterminio per quella che secondo i gerarchi nazisti, tra i quali Heinrich Himmler (uno dei pianificatori dello sterminio, comandante delle SS e della Gestapo), doveva essere la “soluzione finale” del problema ebraico. Persone ormai ridotte l’ombra di se stesse il cui nome era un numero tatuato sul braccio e una stella gialla o un triangolo colorato sui vestiti.
Pochi, ma allo stesso tempo tantissimi, quelli che grazie ad un aiuto sono riusciti a salvarsi dai campi di concentramento.
Un aiuto che veniva da qualcuno che nel silenzio riusciva a sottrarre esseri umani da una sicura carneficina. La storia ci ricorda tanti di questi personaggi che durante la guerra riuscirono a nascondere gli ebrei in fuga: tra i più famosi ricordiamo sicuramente l’imprenditore tedesco Oskar Schindler, Giorgio Perlasca e l’ultimo questore di Fiume Giovanni Palatucci che salvò dai campi di concentramento più di cinquemila ebrei. Ma sono tanti anche quelli la cui storia non è conosciuta a tutti ma che, nel loro piccolo, hanno contribuito a salvare vite umane. Tra questi ultimi ci piace ricordare Angelo De Fiore, all’epoca funzionario dirigente dell’Ufficio stranieri della questura di Roma, che riuscì a sottrarre dalle grinfie naziste più di 350 ebrei. Abbiamo incontrato a Roma il figlio Gaspare, professore universitario di architettura in pensione ma ancora in piena attività, che ci ha raccontato la sua storia.
“All’epoca ero un giovane studente appena uscito dallo storico liceo classico romano Giulio Cesare e iscritto al primo anno della facoltà di architettura. Gli americani avevano appena liberato la Capitale ed io, su incarico del mio professore, stavo facendo dei rilievi sulla Fontana delle rane in piazza Mattei (proprio dietro la Sinagoga, nel centro del ghetto ebraico di Roma, ndr). Mio padre venne a prendermi dopo il turno di servizio. Appena arrivò, una persona uscì da uno dei portoni di quei palazzi semideserti del ghetto romano e, urlando una frase in ebraico che ovviamente io non capii, si gettò ai piedi di mio padre abbracciandolo. Sul momento ebbi paura, in quel periodo si stavano consumando le vendette contro coloro che avevano appoggiato i tedeschi durante l’occupazione; pochi giorni prima era stato linciato il direttore del carcere di Regina Coeli. Poi quella persona ripetè in italiano la frase detta poco prima: Ecco il nostro Angelo salvatore!, per l’appunto il nome di mio padre. Immediatamente tanti altri, soprattutto donne (la maggior parte degli uomini erano stati uccisi) vennero verso mio padre ringraziandolo a gran voce. Io non capivo cosa stesse succedendo. Dopo un po’ ci avviammo verso casa e, lungo la strada, chiesi spiegazioni a papà. E lui mi disse: Gaspare, non dire nulla a mamma di quello che è successo, sai lei si preoccupa... Quell’uomo era stato preso prigioniero dai tedeschi e rinchiuso nella prigione di via Tasso. Io ogni mattina, con due poliziotti, facevo il mio giro e quella mattina capitai lì. Lo stavano torturando strappandogli le unghie e lui era lì lì per confessare di essere ebreo. A quel punto io dissi ma sei proprio tu? Tu sei quel ladro che io... Non feci in tempo a finire la frase che l’ufficiale di guardia mi chiese se conoscessi davvero quell’uomo che loro pensavano fosse un ebreo. Io gli dissi di sì e lo portai via con me. Pochi giorni dopo – continua De Fiore – ci fu l’attentato di via Rasella con il conseguente rastrellamento delle carceri romane, e non solo, da parte dei nazisti e l’eccidio delle Fosse ardeatine. Mio padre aveva salvato quell’uomo. Quando gli domandai perché l’avesse fatto, lui mi rispose che era giusto agire così. Ancora oggi, ricordando quel momento, mi tornano alla mente le voci di quelle persone”.
Fu allora che il giovane Gaspare capì tutto. “Dopo quell’episodio – continua – mio padre raccontò a me e ai miei fratelli che cosa aveva fatto, sempre senza vantarsi ma nella consapevolezza di aver agito ed interpretato la legge in maniera corretta. All’epoca lui dirigeva l’ufficio stranieri della questura di Roma e dalla sua stanza passavano tutte le pratiche riguardanti gli ebrei stranieri, soprattutto provenienti dall’Africa del nord, presenti nella Capitale, ai quali mio padre dava documenti falsi da ariani, nascondendo, distruggendo o, semplicemente, mettendo confusione tra le pratiche. Ad altri invece trovò un rifugio nei conventi o presso le case di amici o, ancora, gli fece passare il confine. Agli occhi dei tedeschi papà sembrò un incompetente e un disordinato che alle loro richieste rispondeva sempre in modo elusivo facendo finta di non capire. Ancora oggi i libri di storia tedeschi riportano la figura di quel funzionario della polizia italiana che, fingendo di non capire e facendo la figura dell’impiegato incompetente, era riuscito a metterli nel sacco! Persino quando l’allora questore di Roma Pietro Caruso, per conto di Herbert Kappler (comandante della polizia tedesca, ndr), chiese a mio padre venti nomi da dargli per la rappresaglia tedesca in seguito all’attentato di via Rasella, lui seccamente gli rispose: Signor questore, io non ho nessun nome da darle! e, tornato a casa, disse a mia madre, che era l’unica della famiglia consapevole della situazione: Prepara le valigie, questa volta rischio la corte marziale! Durante la settimana precedente l’arrivo degli americani, papà andò via, ma prima distrusse tutti i documenti compromettenti gli ebrei che aveva protetto e, la notte prima di scappare, andò personalmente a bussare alle case di chi aveva salvato per avvisarli di fuggire. Furono più di trecentocinquanta coloro che grazie a lui si salvarono!”.
Gaspare De Fiore pensa anche a chi cerca di negare quello che è stato l’Olocausto e alla domanda sull’argomento risponde: “Io ho vissuto quel periodo, ho visto con i miei occhi e, dai racconti di mio padre, ho toccato con mano la Shoah. A parer mio chi nega tutto questo mente sapendo di mentire”.
La cittadina calabrese di Rota Greca, di cui De Fiore era originario, ha deciso di dedicare al suo eroe un monumento scolpito dal figlio Gaspare e di intitolargli, in collaborazione con la questura di Cosenza, il premio “Una vita per la vita”, che da due anni viene assegnato ai poliziotti che si sono sacrificati per ideali di giustizia e libertà. Nel 2005 il riconoscimento è andato all’agente Antonio Bandiera, ferito a morte in un conflitto a fuoco, mentre lo scorso anno è stato premiato l’ex vice brigadiere Sabato Mastroberardino, gravemente ferito in una sparatoria.
Angelo De Fiore è morto nel 1969 e dal 1966, con la pratica numero 0334, gli è stato conferito il riconoscimento di Giusto tra le nazioni e il suo nome è scolpito, assieme a quello di Schindler, Perlasca, Palatucci e di altri 368 italiani, sulla stele della Collina degli ulivi in Israele.
La giornata della memoria
Suona una sirena e la gente si ferma all’improvviso. Quel suono lungo due minuti, un interminabile lasso di tempo, sembra voglia dire: “Non ci dimenticate, noi siamo esistiti ed abbiamo sofferto. Fate che non accada mai più!”. Così Israele celebra il giorno del ricordo delle sue vittime, quei sei milioni di ebrei uccisi nei campi di sterminio. Grazie alla legge del 20 luglio 2000, numero 211, anche la Repubblica italiana, al fine di ricordare la Shoah, riconosce il 27 gennaio ufficialmente come Giornata della memoria. Dal 2005, in base ad una risoluzione Onu presentata da Israele, è stata data rilevanza mondiale a questa data. Anche la polizia italiana ha deciso di celebrare la ricorrenza e il 9 febbraio si è svolto a Roma l’evento. Presso il Polo Tuscolano, nell’aula dedicata all’ultimo questore di Fiume morto nel campo di Dachau, Giovanni Palatucci, si è tenuta la celebrazione della Giornata della memoria, con la consegna del “Premio Palatucci”, dedicato ai dipendenti della Polizia di Stato, ma anche ai figli e agli orfani. Quest’anno il tema era riservato a chi avesse presentato una tesi di laurea sull’argomento “La Shoah, il razzismo, la società multietnica e le problematiche legate al dialogo interreligioso”. I premi sono andati all’ispettore superiore Vincenzo Sapio e agli assistenti Fabrizio De Candia e Addolorata Romanazzi. Inoltre ha ricevuto il riconoscimento una scuola della Capitale, il 141° circolo didattico (San Cleto), plesso “Giovanni Palatucci”. Nel corso della cerimonia è stata intonata per la prima volta, da esponenti di varie confessioni religiose, una preghiera ecumenica. A conclusione della giornata si è esibito il quintetto della Banda musicale con il coro dei bambini delle scuole ebraiche della Capitale e, nei giardini della struttura, è stato piantato un ulivo a ricordo di tutte le vittime della persecuzione operata dai nazisti.
Tre domande a...
Georges De Canino è un artista poliedrico che ha dedicato gran parte della sua vita a rappresentare, sotto varie forme d’arte, scultura, pittura e poesia, le vicende del suo popolo. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente a Benevento durante i preparativi per le celebrazioni della Giornata della memoria e del questore Giovanni Palatucci.
Che ruolo ha la memoria nelle sue opere?
È una parte fondamentale della mia crescita personale. Ci lavoro da trentacinque anni e, per me, è diventato quasi un universo da cui non riesco, e soprattutto non voglio, staccarmi. La critica d’arte Francesca Pietracci, che ha seguito le mie opere, dice che chi sa gestire la propria memoria può anche lavorare sulla memoria altrui. Ed è proprio ciò che voglio fare con i miei lavori.
Come è riuscito a rappresentare in maniera così calzante un tragico momento della nostra storia recente pur non avendolo vissuto in prima persona?
Ispirandomi alle immagini, ai racconti, alle confidenze, agli scritti originali. Ad esempio, alcune mie opere nascono dalle lettere che i prigionieri scrivevano nelle celle di via Tasso prima di morire. Ricordo quella di un recluso che aveva scritto una sorta di testamento sul dorso di un assegno. Ora, invece, dopo tanti anni e dopo aver fatto un’enorme ricerca sul tema, mi succede che non mi serve più il supporto documentale per creare. Le cose escono dall’interno. Si vede che ormai la memoria è diventata parte integrante di me. E questo è forse il più grande dono che queste persone, morte tra indicibili sofferenze, mi hanno lasciato.
Dunque, ricordare è fondamentale. Ma c’è anche chi nega che sia accaduto tutto ciò. È di questi giorni l’approvazione di un ddl secondo cui le idee razziste costituiscono reato. Cosa ne pensa?
Le nuove generazioni, per ovvie ragioni anagrafiche, non potranno sentire i racconti da chi ha vissuto quel periodo. Sta a noi tramandare ciò che è successo, anche attraverso altre forme d’arte come la poesia. Gli scritti di Primo Levi e Anna Frank non possono e non devono essere dimenticati. Quando trascrivo le lettere di via Tasso e disegno i corpi e i volti di quelle persone, mi accorgo di quanto siano ancora attuali. Sono come un inno gridato all’importanza della libertà. Oggi non ce ne rendiamo conto. I giovani, per fortuna, non sanno cosa sia una dittatura e cosa voglia dire il non poter esprimere liberamente le proprie idee. Ma è bene che qualcuno a loro lo ricordi.
L’Olocausto sul grande schermo
Fiction, documentari ma soprattutto molti film sono stati dedicati alla Shoah e tanti di questi hanno ricevuto importanti riconoscimenti a livello internazionale. Accanto ai pluripremiati e celebrati Schindler’s list e La vita è bella ci sono tante altre pellicole da ricordare. Amen (2002) che racconta il tentativo di un ufficiale delle SS, fervente cattolico, e di un gesuita di ostacolare lo sterminio nei campi di concentramento; Il giardino dei Finzi Contini (1970) magistralmente diretto da Vittorio De Sica, sulle vicende della comunità ebraica di Ferrara; Charlie Chaplin nel 1940 diresse ed interpretò Il grande dittatore, sbeffeggiando Hitler e il suo regime; Olocausto (1978), con James Woods e Meryl Streep, che in 425 minuti (la Rai lo programmò in diverse puntate) narra la storia della famiglia Weiss dalle prime persecuzioni fino all’arrivo in Israele, passando per il campo di Auschwitz; La tregua (1997), di Francesco Rosi, ispirato all’omonimo libro di Primo Levi; Train de vie del 1998 offre una visione un po’ disincantata narrando la storia di un gruppo di ebrei che per fuggire dalle persecuzioni costruiscono un finto treno merci, travestiti da SS e da prigionieri, diretto verso una finta destinazione; Il diario di Anna Frank (1959) tratto dal celebre diario di una bambina olandese; Concorrenza sleale del 2001, di Ettore Scola, sull’applicazione delle leggi razziali in Italia; Jona che visse nella balena (1993) che racconta la storia di un bimbo sopravvissuto al campo di Bergen Belsen.
Quella scritta, quel cancello, quei binari ci sono ancora oggi. Ad Oswiecim (nome originario polacco) tutto è stato lasciato come sessant’anni fa, quando la furia nazista fece di questo anonimo paesino polacco al confine con la Cecoslovacchia il centro della sua macchina di morte. Qui più di due milioni di persone – in maggior parte ebrei, ma anche prigionieri politici, zingari ed omosessuali – furono avviate, chi dopo aver lavorato in condizioni disumane per mesi, chi immediatamente perché non utile alla causa del Reich, nelle camere a gas e poi sepolte in fosse comuni oppure bruciate nei forni crematori. Le ceneri venivano poi gettate nella Vistola, il fiume che scorre nelle vicinanze del campo. Qui il confine tra la vita e la morte era estremamente labile e veniva scandito sulla rampa che portava ai vagoni ferroviari piombati con semplici parole come “tu a destra, tu a sinistra”, che equivalevano a “tu ancora ci servi per un po’, tu invece puoi andare a morire subito”. I quaranta chilometri quadrati recintati dal filo spinato elettrificato e divisi tra baracche, magazzini, locali “docce” e forni crematori di Auschwitz-Birkenau sono ancora lì, in un silenzio innaturale che fa sentire il suo rumore assordante, per non dimenticare quanto accaduto sotto il regime del terzo Reich.
Sono in molti, quasi sei milioni, gli ebrei trucidati nei campi di sterminio per quella che secondo i gerarchi nazisti, tra i quali Heinrich Himmler (uno dei pianificatori dello sterminio, comandante delle SS e della Gestapo), doveva essere la “soluzione finale” del problema ebraico. Persone ormai ridotte l’ombra di se stesse il cui nome era un numero tatuato sul braccio e una stella gialla o un triangolo colorato sui vestiti.
Pochi, ma allo stesso tempo tantissimi, quelli che grazie ad un aiuto sono riusciti a salvarsi dai campi di concentramento.
Un aiuto che veniva da qualcuno che nel silenzio riusciva a sottrarre esseri umani da una sicura carneficina. La storia ci ricorda tanti di questi personaggi che durante la guerra riuscirono a nascondere gli ebrei in fuga: tra i più famosi ricordiamo sicuramente l’imprenditore tedesco Oskar Schindler, Giorgio Perlasca e l’ultimo questore di Fiume Giovanni Palatucci che salvò dai campi di concentramento più di cinquemila ebrei. Ma sono tanti anche quelli la cui storia non è conosciuta a tutti ma che, nel loro piccolo, hanno contribuito a salvare vite umane. Tra questi ultimi ci piace ricordare Angelo De Fiore, all’epoca funzionario dirigente dell’Ufficio stranieri della questura di Roma, che riuscì a sottrarre dalle grinfie naziste più di 350 ebrei. Abbiamo incontrato a Roma il figlio Gaspare, professore universitario di architettura in pensione ma ancora in piena attività, che ci ha raccontato la sua storia.
“All’epoca ero un giovane studente appena uscito dallo storico liceo classico romano Giulio Cesare e iscritto al primo anno della facoltà di architettura. Gli americani avevano appena liberato la Capitale ed io, su incarico del mio professore, stavo facendo dei rilievi sulla Fontana delle rane in piazza Mattei (proprio dietro la Sinagoga, nel centro del ghetto ebraico di Roma, ndr). Mio padre venne a prendermi dopo il turno di servizio. Appena arrivò, una persona uscì da uno dei portoni di quei palazzi semideserti del ghetto romano e, urlando una frase in ebraico che ovviamente io non capii, si gettò ai piedi di mio padre abbracciandolo. Sul momento ebbi paura, in quel periodo si stavano consumando le vendette contro coloro che avevano appoggiato i tedeschi durante l’occupazione; pochi giorni prima era stato linciato il direttore del carcere di Regina Coeli. Poi quella persona ripetè in italiano la frase detta poco prima: Ecco il nostro Angelo salvatore!, per l’appunto il nome di mio padre. Immediatamente tanti altri, soprattutto donne (la maggior parte degli uomini erano stati uccisi) vennero verso mio padre ringraziandolo a gran voce. Io non capivo cosa stesse succedendo. Dopo un po’ ci avviammo verso casa e, lungo la strada, chiesi spiegazioni a papà. E lui mi disse: Gaspare, non dire nulla a mamma di quello che è successo, sai lei si preoccupa... Quell’uomo era stato preso prigioniero dai tedeschi e rinchiuso nella prigione di via Tasso. Io ogni mattina, con due poliziotti, facevo il mio giro e quella mattina capitai lì. Lo stavano torturando strappandogli le unghie e lui era lì lì per confessare di essere ebreo. A quel punto io dissi ma sei proprio tu? Tu sei quel ladro che io... Non feci in tempo a finire la frase che l’ufficiale di guardia mi chiese se conoscessi davvero quell’uomo che loro pensavano fosse un ebreo. Io gli dissi di sì e lo portai via con me. Pochi giorni dopo – continua De Fiore – ci fu l’attentato di via Rasella con il conseguente rastrellamento delle carceri romane, e non solo, da parte dei nazisti e l’eccidio delle Fosse ardeatine. Mio padre aveva salvato quell’uomo. Quando gli domandai perché l’avesse fatto, lui mi rispose che era giusto agire così. Ancora oggi, ricordando quel momento, mi tornano alla mente le voci di quelle persone”.
Fu allora che il giovane Gaspare capì tutto. “Dopo quell’episodio – continua – mio padre raccontò a me e ai miei fratelli che cosa aveva fatto, sempre senza vantarsi ma nella consapevolezza di aver agito ed interpretato la legge in maniera corretta. All’epoca lui dirigeva l’ufficio stranieri della questura di Roma e dalla sua stanza passavano tutte le pratiche riguardanti gli ebrei stranieri, soprattutto provenienti dall’Africa del nord, presenti nella Capitale, ai quali mio padre dava documenti falsi da ariani, nascondendo, distruggendo o, semplicemente, mettendo confusione tra le pratiche. Ad altri invece trovò un rifugio nei conventi o presso le case di amici o, ancora, gli fece passare il confine. Agli occhi dei tedeschi papà sembrò un incompetente e un disordinato che alle loro richieste rispondeva sempre in modo elusivo facendo finta di non capire. Ancora oggi i libri di storia tedeschi riportano la figura di quel funzionario della polizia italiana che, fingendo di non capire e facendo la figura dell’impiegato incompetente, era riuscito a metterli nel sacco! Persino quando l’allora questore di Roma Pietro Caruso, per conto di Herbert Kappler (comandante della polizia tedesca, ndr), chiese a mio padre venti nomi da dargli per la rappresaglia tedesca in seguito all’attentato di via Rasella, lui seccamente gli rispose: Signor questore, io non ho nessun nome da darle! e, tornato a casa, disse a mia madre, che era l’unica della famiglia consapevole della situazione: Prepara le valigie, questa volta rischio la corte marziale! Durante la settimana precedente l’arrivo degli americani, papà andò via, ma prima distrusse tutti i documenti compromettenti gli ebrei che aveva protetto e, la notte prima di scappare, andò personalmente a bussare alle case di chi aveva salvato per avvisarli di fuggire. Furono più di trecentocinquanta coloro che grazie a lui si salvarono!”.
Gaspare De Fiore pensa anche a chi cerca di negare quello che è stato l’Olocausto e alla domanda sull’argomento risponde: “Io ho vissuto quel periodo, ho visto con i miei occhi e, dai racconti di mio padre, ho toccato con mano la Shoah. A parer mio chi nega tutto questo mente sapendo di mentire”.
La cittadina calabrese di Rota Greca, di cui De Fiore era originario, ha deciso di dedicare al suo eroe un monumento scolpito dal figlio Gaspare e di intitolargli, in collaborazione con la questura di Cosenza, il premio “Una vita per la vita”, che da due anni viene assegnato ai poliziotti che si sono sacrificati per ideali di giustizia e libertà. Nel 2005 il riconoscimento è andato all’agente Antonio Bandiera, ferito a morte in un conflitto a fuoco, mentre lo scorso anno è stato premiato l’ex vice brigadiere Sabato Mastroberardino, gravemente ferito in una sparatoria.
Angelo De Fiore è morto nel 1969 e dal 1966, con la pratica numero 0334, gli è stato conferito il riconoscimento di Giusto tra le nazioni e il suo nome è scolpito, assieme a quello di Schindler, Perlasca, Palatucci e di altri 368 italiani, sulla stele della Collina degli ulivi in Israele.
La giornata della memoria
Suona una sirena e la gente si ferma all’improvviso. Quel suono lungo due minuti, un interminabile lasso di tempo, sembra voglia dire: “Non ci dimenticate, noi siamo esistiti ed abbiamo sofferto. Fate che non accada mai più!”. Così Israele celebra il giorno del ricordo delle sue vittime, quei sei milioni di ebrei uccisi nei campi di sterminio. Grazie alla legge del 20 luglio 2000, numero 211, anche la Repubblica italiana, al fine di ricordare la Shoah, riconosce il 27 gennaio ufficialmente come Giornata della memoria. Dal 2005, in base ad una risoluzione Onu presentata da Israele, è stata data rilevanza mondiale a questa data. Anche la polizia italiana ha deciso di celebrare la ricorrenza e il 9 febbraio si è svolto a Roma l’evento. Presso il Polo Tuscolano, nell’aula dedicata all’ultimo questore di Fiume morto nel campo di Dachau, Giovanni Palatucci, si è tenuta la celebrazione della Giornata della memoria, con la consegna del “Premio Palatucci”, dedicato ai dipendenti della Polizia di Stato, ma anche ai figli e agli orfani. Quest’anno il tema era riservato a chi avesse presentato una tesi di laurea sull’argomento “La Shoah, il razzismo, la società multietnica e le problematiche legate al dialogo interreligioso”. I premi sono andati all’ispettore superiore Vincenzo Sapio e agli assistenti Fabrizio De Candia e Addolorata Romanazzi. Inoltre ha ricevuto il riconoscimento una scuola della Capitale, il 141° circolo didattico (San Cleto), plesso “Giovanni Palatucci”. Nel corso della cerimonia è stata intonata per la prima volta, da esponenti di varie confessioni religiose, una preghiera ecumenica. A conclusione della giornata si è esibito il quintetto della Banda musicale con il coro dei bambini delle scuole ebraiche della Capitale e, nei giardini della struttura, è stato piantato un ulivo a ricordo di tutte le vittime della persecuzione operata dai nazisti.
Tre domande a...
Georges De Canino è un artista poliedrico che ha dedicato gran parte della sua vita a rappresentare, sotto varie forme d’arte, scultura, pittura e poesia, le vicende del suo popolo. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente a Benevento durante i preparativi per le celebrazioni della Giornata della memoria e del questore Giovanni Palatucci.
Che ruolo ha la memoria nelle sue opere?
È una parte fondamentale della mia crescita personale. Ci lavoro da trentacinque anni e, per me, è diventato quasi un universo da cui non riesco, e soprattutto non voglio, staccarmi. La critica d’arte Francesca Pietracci, che ha seguito le mie opere, dice che chi sa gestire la propria memoria può anche lavorare sulla memoria altrui. Ed è proprio ciò che voglio fare con i miei lavori.
Come è riuscito a rappresentare in maniera così calzante un tragico momento della nostra storia recente pur non avendolo vissuto in prima persona?
Ispirandomi alle immagini, ai racconti, alle confidenze, agli scritti originali. Ad esempio, alcune mie opere nascono dalle lettere che i prigionieri scrivevano nelle celle di via Tasso prima di morire. Ricordo quella di un recluso che aveva scritto una sorta di testamento sul dorso di un assegno. Ora, invece, dopo tanti anni e dopo aver fatto un’enorme ricerca sul tema, mi succede che non mi serve più il supporto documentale per creare. Le cose escono dall’interno. Si vede che ormai la memoria è diventata parte integrante di me. E questo è forse il più grande dono che queste persone, morte tra indicibili sofferenze, mi hanno lasciato.
Dunque, ricordare è fondamentale. Ma c’è anche chi nega che sia accaduto tutto ciò. È di questi giorni l’approvazione di un ddl secondo cui le idee razziste costituiscono reato. Cosa ne pensa?
Le nuove generazioni, per ovvie ragioni anagrafiche, non potranno sentire i racconti da chi ha vissuto quel periodo. Sta a noi tramandare ciò che è successo, anche attraverso altre forme d’arte come la poesia. Gli scritti di Primo Levi e Anna Frank non possono e non devono essere dimenticati. Quando trascrivo le lettere di via Tasso e disegno i corpi e i volti di quelle persone, mi accorgo di quanto siano ancora attuali. Sono come un inno gridato all’importanza della libertà. Oggi non ce ne rendiamo conto. I giovani, per fortuna, non sanno cosa sia una dittatura e cosa voglia dire il non poter esprimere liberamente le proprie idee. Ma è bene che qualcuno a loro lo ricordi.
L’Olocausto sul grande schermo
Fiction, documentari ma soprattutto molti film sono stati dedicati alla Shoah e tanti di questi hanno ricevuto importanti riconoscimenti a livello internazionale. Accanto ai pluripremiati e celebrati Schindler’s list e La vita è bella ci sono tante altre pellicole da ricordare. Amen (2002) che racconta il tentativo di un ufficiale delle SS, fervente cattolico, e di un gesuita di ostacolare lo sterminio nei campi di concentramento; Il giardino dei Finzi Contini (1970) magistralmente diretto da Vittorio De Sica, sulle vicende della comunità ebraica di Ferrara; Charlie Chaplin nel 1940 diresse ed interpretò Il grande dittatore, sbeffeggiando Hitler e il suo regime; Olocausto (1978), con James Woods e Meryl Streep, che in 425 minuti (la Rai lo programmò in diverse puntate) narra la storia della famiglia Weiss dalle prime persecuzioni fino all’arrivo in Israele, passando per il campo di Auschwitz; La tregua (1997), di Francesco Rosi, ispirato all’omonimo libro di Primo Levi; Train de vie del 1998 offre una visione un po’ disincantata narrando la storia di un gruppo di ebrei che per fuggire dalle persecuzioni costruiscono un finto treno merci, travestiti da SS e da prigionieri, diretto verso una finta destinazione; Il diario di Anna Frank (1959) tratto dal celebre diario di una bambina olandese; Concorrenza sleale del 2001, di Ettore Scola, sull’applicazione delle leggi razziali in Italia; Jona che visse nella balena (1993) che racconta la storia di un bimbo sopravvissuto al campo di Bergen Belsen.
01/02/2007