Annalisa Bucchieri

Assassini al veleno

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Subdolo, raffinato e misterioso. Torna sulla scena l’arma silenziosa per eliminare i nemici nella speranza di non lasciare tracce

Se avessimo sciolto cinque grammi di cianuro nell’inchiostro usato per stampare questa pagina, il trasporto di ossigeno del vostro sistema circolatorio sanguigno sarebbe già bloccato, le pupille inizierebbero a dilatarsi, il vostro viso assumerebbe un aspetto cianotico e tempo di arrivare alla fine di questo periodo sareste morti in preda alle convulsioni.
Naturalmente era solo un’ipotesi fantasiosa e non plausibile. Ma è indubbio che adesso vorreste sapere qualcosa di più sul cianuro e soprattutto sul suo antitodo.
Il veleno affascina quanto spaventa. Lo riprovano quei milligrammi di polonio 210, un sale radioattivo sconosciuto ai più, anche agli stessi investigatori perché mai utilizzato prima di allora per uccidere, che continuano a scatenare le romanzesche ansie di media e opinione pubblica.

Una questione di dosi
Il mistero di un delitto è più intricato e intriso di segreti quando l’arma usata è il veleno. Prima di tutto perché subdoli, raffinati quanto infiniti sono i modi di somministrarlo. Si va dall’invio ad un rivale in amore di un pacco con assaggio promozionale di un nuovo analcolico, che in quanto nuovo non rende sospetto il sapore amaro dato dalla stricnina (il famoso delitto del bitter di cui fu vittima Tino Allegri), all’ombrello-fucile con cui un agente segreto sparò una pallottola di ricina (tossina di origine vegetale che deriva dalla pianta del ricino) al dissidente bulgaro Georgi Markov.
Il veleno è inoltre sinonimo di mistero perché sfugge ad ogni definizione, è impossibile classificarlo in maniera esaustiva, individuarlo come categoria merceologica. O che mai dunque è veleno? Tutto è veleno, e nulla è di veleno privo. La dose sola fa tale cosa o talaltra velenifera: pietanza o bevanda se assunte in maniera smodata sono letali, scriveva Paracelso, agli inizi del Cinquecento. Parole illuminanti che ancora oggi i tossicologi forensi tengono a mente ogniqualvolta vengono interpellati dai medici legali per individuare la causa di omicidi dalle ferite invisibili. Basti pensare che addirittura l’ossigeno, fonte di vita del corpo umano, si può trasformare in uno strumento di morte, come ha dimostrato Sonia Caleffi, l’infermiera che ha ucciso 12 anziani nell’ospedale di Lecco praticandogli iniezioni massicce di aria nelle vene.
Una questione di dosi, quindi. Lo riconferma l’etimologia stessa della parola farmaco, dal greco pharmakon, che significa al tempo stesso veleno e medicina: ciò che può uccidere può anche guarire e viceversa, dipende dalla quantità. L’arsenico viene usato nella profilassi della leucemia, così come la belladonna, l’erba cattiva dei Borgia, è stata riabilitata dall’omeopatia quale potente antifebbrile. E viceversa barbiturici, ipoglicemici e morfina sono i medicinali più frequenti per esecuzioni capitali, suicidi e avvelenamenti “familiari”.

Il serpente in famiglia
È infatti principalmente tra le mura domestiche che si aggirano i demoni delle tossine, i miscelatori di micidiali cocktail di farmaci. Rassegnando gli ultimi sei anni di cronaca nera italiana, gli omicidi per avvelenamento sono tutti perpetrati dai familiari delle vittime. Spesso ultimi tragici atti di lunghe e disperate convivenze con chi soffre di disagi psichici e fisici.
I dati ci dicono che sono casi rari, 25 dal 2000 ad oggi, una media di 3,5 l’anno, e rappresentano la percentuale più esigua all’interno della graduatoria di cause omicidiarie: per maneggiare il veleno ci vuole perizia e abilità molto più che per maneggiar

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01/01/2007