Giovanni Calesini

Sicurezza nazionale e diritti umani

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Non è più possibile espellere chi, condannato per terrorismo, potrebbe essere sottoposto a torture nel proprio Paese. Lo stabilisce una sentenza della Corte europea dei diritti umani che fa discutere

La Corte suprema degli Stati Uniti ha recentemente stabilito che la struttura e le procedure della Commissione militare Usa, istituita per giudicare i detenuti stranieri del carcere di Guantanamo, violano sia la legge militare statunitense che la convenzione di Ginevra sui diritti dei prigionieri di guerra. La sentenza della Corte suprema si è inserita nel più ampio dibattito relativo alla possibilità che, in materia di terrorismo, nel bilanciamento tra esigenze della sicurezza nazionale e diritti umani, le prime possano senz’altro prevalere. Nel nostro Paese, dove non si pone il problema delle giurisdizioni speciali militari, la discussione si incentra sui meccanismi e le procedure delle espulsioni degli stranieri sospettati, accusati o anche condannati per reati di terrorismo. Si tratta, in altri termini di valutare il peso del principio affermato dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea approvata a Nizza il 22 dicembre 2000, in base al quale nessuno può essere espulso o estradato verso un Paese dove ci sono seri rischi che egli possa essere sottoposto a pena di morte, torture o altri trattamenti o punizioni degradanti o inumani.
Il principio, formalmente dichiarato dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, era stato già affermato dalla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo nella sentenza 22414/93, “Chahal contro Regno Unito” del 15 novembre 1996.
Il caso è rilevante perché i giudici hanno esplicitamente respinto gli argomenti del governo britannico, secondo cui le garanzie assicurate della Convenzione per i diritti umani non sono assolute, e debbono essere bilanciate con la sicurezza nazionale.
Per comprendere l’importanza della decisione è necessario ripercorrere il ragionamento che ha portato la Corte dei diritti umani ad accogliere il ricorso del signor Chahal contro il provvedimento di espulsione dal Regno Unito.

Il fatto
Il signor Chahal, cittadino indiano, era entrato clandestinamente nel Regno Unito nel 1971 ed aveva ottenuto un permesso di soggiorno illimitato nel 1974 dopo una regolarizzazione per i clandestini. Dieci anni dopo Chahal fece un viaggio nello stato indiano del Punjab, durante il quale si convertì alla religione Sikh, partecipando poi all’organizzazione della resistenza passiva per difendere l’autonomia del Punjab.
Fu arrestato e, secondo le sue affermazioni, sottoposto a torture. rientrato nel Regno Unito nel maggio di quell’anno, il signor Chahal iniziò l’attività politica e religiosa connessa con la causa Sikh.
Nel 1985 arrestato in quanto sospettato di aver partecipato ad un complotto per assassinare il primo ministro indiano Rajiv Gandhi durante una visita ufficiale nel Regno Unito, fu liberato per mancanza di prove. L’anno successivo fu arrestato e interrogato due volte perché sospettato di far parte di un complotto per assassinare i Sikh moderati nel Regno Unito, e in ambedue i casi fu posto in libertà senza conseguenze. Nel marzo dello stesso anno fu nuovamente arrestato per alcuni incidenti accaduti in un tempio Sikh di Londra e questa volta fu condannato a pene privative della libertà di sei e nove mesi; tuttavia il tribunale d’appello annullò le due condanne. 
Il 14 agosto del 1990 il ministro dell’Interno britannico decise di espellere il signor Chahal perché la sua presenza nel regno unito costituiva un pericolo per la sicurezza nazionale. 
L’interessato che, nel caso di ritorno in India, temeva di essere oggetto di persecuzione, presentò una domanda di asilo, respinta dal ministro dell’interno che non considerò fondato il timore di persecuzione. 
In particolare, l’autorità britannica ritenne che non fossero state portate sufficienti prove di persecuzione e che, in ogni caso, gli articoli 32 e 33 della Convenzione del 1951, impedissero al signor Chahal di beneficiare della protezione, a causa del rischio che egli rappresentava per la sicurezza nazionale del Regno Unito.
Tutti i ricorsi alla giustizia britannica contro quest’ultima decisione furono respinti e Chahal si rivolse allora alla Corte (già commissione) europea dei diritti umani. 

Fondamenti di diritto
La Corte comincia ricordando che, anche secondo la propria giurisprudenza, tutti gli Stati, in virtù di un principio di diritto internazionale, hanno il diritto di controllare l’ingresso, la permanenza e l’uscita degli stranieri sul loro territorio. In questo senso, né la Convenzione europea né alcuno dei suoi protocolli consacrano il diritto di asilo politico.
Tuttavia un decreto di espulsione di uno straniero adottato da uno stato che aderisce alla Convenzione europea del diritti dell’Uomo, può costituire una violazione dell’articolo 3, secondo cui “Nessuno può essere sottoposto a torture né a pene o trattamenti inumani o degradanti” e di conseguenza, chiamare in causa la responsabilità dello Stato stesso, quando esistono motivi considerevoli per credere che l’interessato corra il rischio reale di essere sottoposto, nel Paese di destinazione, a un trattamento contrario a questo articolo.
In altri termini: gli obblighi derivati da questo precetto obbligano lo Stato a non espellere la persona in questione verso questo Paese in quanto la protezione assicurata dall’articolo 3 della convenzione è superiore ad ogni altra considerazione.
La Corte ha riconosciuto le immense difficoltà che affrontano gli Stati in questi tempi moderni per proteggere la comunità dalla violenza terrorista.
“Tuttavia anche in queste circostanze, la Convenzione europea proibisce in termini assoluti la tortura, trattamenti o pene degradanti e inumane, qualunque sia la condotta della vittima… Il divieto di trattamenti inumani enunciato dall’art. 3 è assoluto in materia di espulsioni. Così, ogni qualvolta ci sono dei motivi seri e accertati per credere che una persona corra un rischio reale di essere sottoposta a trattamenti contrari all’articolo 3 se fosse espulsa verso un altro stato, la responsabilità dello stato contraente – di proteggerla da tali trattamenti – è compromessa, in caso l’espulsione sia eseguita.
In queste circostanze, le attività della persona in questione, anche se risultassero indesiderabili e pericolose, non potrebbero essere prese in considerazione.” (par 80) (1)
La protezione assicurata dall’art. 3 della Convenzione è dunque assoluta.
Circa i rischi corsi dal signor Chahal, il governo britannico aveva chiesto al governo indiano assicurazioni che quest’ultimo aveva così fornito: “Abbiamo preso nota della vostra richiesta diretta a ricevere assicurazioni formali che garantiscano che se il signor Chahal sarà espulso verso l’India, egli fruirà della medesima protezione giuridica di ogni altro cittadino indiano e non ha alcuna ragione di temere trattamenti cattivi di alcun genere dalle autorità indiane. Ho l’onore di confermare che è così”.
La Corte “non dubita della buona fede del governo indiano” allorché ha fornito le assicurazioni citate, ma si è detta convinta che, malgrado gli sforzi sviluppati per introdurre riforme apprezzabili, le violazioni dei diritti dell’uomo perpetrati nel Punjab e in altre regioni indiane da alcuni membri delle forze di sicurezza costituivano (nel 1996) un problema persistente e difficile da risolvere.
 In queste condizioni la Corte non ha ritenuto che le assicurazioni precitate fornissero al signor Chahal una garanzia sufficiente per la sua sicurezza a causa della polizia del Punjab, i cui membri “erano abituati ad agire senza alcuna considerazione verso i diritti umani dei sospetti militanti Sikh…”
Nel caso in esame, il ministro dell’Interno britannico aveva posto sulla bilancia il rischio che correva il signor Chahal ed il pericolo che lo stesso costituiva per la sicurezza nazionale ed aveva ritenuto prevalente quest’ultimo.
Invece in considerazione del carattere irreversibile del danno che potrebbe derivare se si concretizzasse il presunto rischio di tortura o trattamenti inumani è sempre necessario un esame indipendente e rigoroso per chiarire se esistono ragioni per temere che il rischio sia reale. Questo esame deve essere realizzato “senza tenere in considerazione, per giustificare un’espulsione, né ciò che la persona ha potuto fare né l’apparente minaccia per la sicurezza nazionale dello stato in questione” (par. 151).

Conclusioni
L’art. 3 della Convenzione per i diritti umani e l’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea richiamano uno dei valori più importanti di una società democratica e contengono una garanzia assoluta. Si deve perciò convenire con la Cour d’Appel de Paris (14.6.1994) che “la materia dei diritti dell’Uomo è (materia) di ordine pubblico e la protezione di questi diritti deve essere assicurata tanto ai cittadini nazionali che ai cittadini degli Stati che non sono parte della Convenzione [dei diritti dell’uomo, nda], se sono domiciliati sul territorio nazionale(2)”.  


1. Traduzione non ufficiale dal testo francese.
(2). Libera traduzione del seguente testo francese, cit, in Caroline Picheral, L’ordre public européen, Ed. CERIC –Aix en provence, 2001, pag. 316. … “la matiére des droits de l’homme est d’ordre public et la protection de ce droits doit être assurée tant a l’égard des nationaux qu’a l’egard des résortissants des États non parties à la Convention s’ils sont domicilié sur le territoire national”.

01/10/2006