Antonella Fabiani
La forza di una donna
Sono centinaia le madri, le mogli e le compagne brutalizzate da uomini violenti. Poliziamoderna racconta la drammatica storia di una di loro
Marina ha gli occhi azzurri, lunghi capelli biondi, un fisico minuto. Un volto aperto e un sorriso sereno. È difficile credere che abbia una storia di violenza, di aver rischiato di finire sulle pagine di cronaca per essere stata uccisa dal proprio compagno in un momento di follia. Ha accettato di raccontare la sua vicenda, una delle tante, che parlano di violenze psicologiche e fisiche quotidiane ricevute da parte dell’uomo a cui si sono affidate, hanno creduto, con cui hanno deciso di fare figli, di costruire una famiglia. Marina è uscita da questa storia da qualche anno (anche grazie all’aiuto del centro Differenza donna dove la incontriamo), ma quando inizia il suo racconto il sorriso si spegne e la voce diventa più tesa. “Quando l’ho conosciuto pensavo che fosse la persona giusta – dice Marina – avevo ventotto anni ero più che convinta, pensavo che sarebbe stato l’uomo con cui avrei vissuto per sempre. Frequentavamo lo stesso corso di formazione, aveva sette anni più di me e viveva già da solo; è stato facile mettersi insieme, amarsi e decidere di avere un figlio”.Era difficile allora per me vedere in lui quello che poi si sarebbe rivelato; era un uomo introverso, a parte questo non c’erano segnali evidenti di quello che sarebbe successo. Il bambino è stato voluto da tutti e due; quando gli dissi che era in arrivo sembrava contento ma dopo tre mesi di gravidanza ha cominciato a diventare insofferente e violento. Era iniziata la spirale della violenza, ma allora non potevo saperlo; criticava qualsiasi cosa facessi, e in poco tempo ero completamente condizionata dalla sua persona, dai suoi atteggiamenti e non ero più in grado di pensare liberamente. Solo quando sentiva di esagerare allora piangeva, si pentiva ma era, come poi ho capito, solo per ingannarmi tranquillizzandomi nel caso avessi deciso di reagire. Pensavo che resistendo la situazione sarebbe migliorata, invece ogni mio minimo comportamento o atteggiamento era un modo per denigrarmi, offendermi. Aveva cominciato anche a isolarmi, era infastidito se parlavo con i miei genitori o con i miei amici, ero diventata una sua proprietà, non esistevo come persona. Qualsiasi cosa dicessi non andava bene, mi accusava di non saper fare niente, neanche la madre. Ero sottoposta a un ricatto emotivo continuo: quando piangevo era contento. Poi cominciò con la violenza fisica, ricordo che qualche giorno prima del parto avevo un braccio completamente viola, mi disse di dire a chi avesse chiesto spiegazioni che ero caduta dalle scale.
Il problema della violenza è capire quello che ci sta succedendo: io non comprendevo quanto fosse grave quello che stavo sopportando. Vivevo la paura ma non riuscivo a reagire perché mi sentivo controllata nella mente e anche perché temevo che potesse vendicarsi sul bambino. I miei genitori sapevano tutto, ma non potevano aiutarmi concretamente perché la situazione non era chiara nemmeno a loro; pensavano che vivessi normali conflitti di una coppia. Credo di aver deciso di reagire dopo aver avuto un attacco di panico; in quel momento ho ripensato alle parole che mia madre mi aveva detto tanti anni prima, e cioè che spesso chi è vittima di violenza non sa di esserlo perché ne è troppo coinvolta. Da quel momento ho compreso chi fosse lui, un uomo violento che non potevo amare e che avevo sbagliato la mia scelta. Così l’ho lasciato, sono andata via di casa. Ma le cose sono peggiorate: ha cominciato a pedinarmi, a spiarmi, a telefonarmi a tutte le ore. Continuavo ancora a vivere nella paura. Sapevo perfettamente che non mi avrebbe lasciato in pace, sentivo questa continua pressione su di me. Non perdeva occasione per dirmi che io dovevo stare con lui per sempre, che non potevo sfuggirgli.
Finché una sera non ha tentato di ammazzarmi. Allora l’ho denunciato. L’ho fatto anche se non è facile denunciare il padre del proprio figlio, ma non ne potevo più. Le accuse sono state maltrattamenti familiari, porto abusivo d’armi, violenza sessuale; lui mi aveva sempre detto che il suo comportamento era normale, che è così che ci si ama.
Qui nel centro ho trovato donne che mi hanno aiutato a elaborare e ad analizzare ciò che avevo vissuto. Ora guardo sempre negli occhi le persone per capire chi sono, e non solo gli uomini. Questa esperienza mi ha fatto crescere e cerco di darla a mio figlio di cinque anni, che vorrei diventasse un uomo che rispetta le persone, un uomo vero”.
Un centro di aiuto alle donne
Ne esistono più di cento su tutto il territorio nazionale, solo la sede di Roma riesce a dare aiuto a più di cinquecento donne l’anno. Nata nel 1989, l’associazione Differenza donna si è sempre battuta per prevenire, denunciare e contrastare la violenza alle donne. Un fenomeno trasversale che non conosce classi sociali, zone geografiche o particolari livelli economici o di istruzione. A lavorare nell’associazione solo donne: psicologhe, assistenti sociali, avvocati, e molte di loro hanno subito violenza e hanno deciso di aiutare le altre proprio per vivificare questa esperienza di sofferenza. Intenso il dialogo con le istituzioni (università, forze dell’ordine, amministrazioni giudiziarie) e anche l’attività di sensibilizzazione del fenomeno attraverso corsi di formazione a insegnanti, medici, psicologi, assistenti sociali. “Il centro è un luogo di scambio, di forze e di cultura – osserva Gabriella Paparazzo, responsabile dell’area formazione dell’associazione – necessari per elaborare progetti per conoscere e combattere meglio la violenza. Qui le donne trovano una possibilità di ascolto, di aiuto concreto, assistenza legale, tutte informazioni e strumenti per renderle consapevoli dei propri diritti e della propria libertà”. Il centro ha un’attività di call center 24 ore su 24 e inoltre, in situazioni di emergenza, ospita le donne che vivono una particolare situazione di pericolosità e che hanno deciso di allontanarsi in maniera definitiva dal proprio marito o compagno violento.
01/06/2006