Annalisa Bucchieri

Obiettivo mafia

CONDIVIDI

Nelle fotografie di Letizia Battaglia la denuncia di vent’anni di sangue versato da Cosa Nostra. Ma anche uno sguardo di dolorosa pietà per le vittime

Obiettivo mafia

Donna, fotografa e siciliana: Letizia Battaglia, è un concentrato di sfide, la più importante delle quali è quella lanciata alla mafia con la sua Pentax K1000. Per quasi vent’anni Letizia, che ora di anni ne ha settanta, ha lavorato come fotoreporter per la cronaca nera de L’Ora di Palermo e di altre testate immortalando – purtroppo termine più consono non ve n’è – la mattanza perpetrata da Cosa Nostra dal 1976 al 1992. Ora le immagini scattate da lei e dal suo compagno Franco Zecchin durante quella terribile stagione vengono raccolte e pubblicate nel libro Dovere di cronaca, per i tipi della Peliti Associati.
Centosessanta pagine di dolore, violenza omicida, sangue sull’asfalto: perché questa scelta editoriale così forte?
Per far capire alla gente, per non permettere che dimentichi. Chi guarda un’immagine singola sul quotidiano o al telegiornale non ha l’idea della strage che ha insanguinato la Sicilia per diversi anni. Solo vedendole tutte insieme si percepisce l’orrore di una guerra che è costata una media di un morto al giorno.
Colpisce, in apertura del libro, il ritratto di Rosaria Schifani, vedova di un agente della scorta di Falcone. Il buio su metà del viso quasi a simboleggiare la perdita di parte di se stessi con il lutto, ma soprattutto gli occhi chiusi. È stato un caso?
No, è voluto. Stava vicino alla persiana, con una bella luce di taglio, le dissi “chiudi gli occhi”. L’ho fatto per rendere tutto più conciso, più drammatico e anche più pudico di fronte a un grande dolore. Non è una vigliaccata, ma un modo di dire che certe cose non le vogliamo più vedere.
Dovere di cronaca finisce con le immagini di Capaci, a chiudere un cerchio. Perché l’attività di testimonianza si ferma al ’92?
L’attentato di Capaci è stato troppo rispetto a quello che potevo ormai sopportare. Avevo esaurito la forza di sostenere certe visioni, di sentire oltre l’odore del sangue che mi aveva penetrato per anni le narici. Mi sono sentita anche impotente: perché continuare a documentare e testimoniare con le fotografie se poi non cambiava niente? Franco Zecchin se ne andò a Parigi, il nostro sodalizio sentimentale e professionale si sciolse.
Del resto la sua crisi personale è coincisa anche con l’inizio della pax mafiosa voluta da Provenzano.
È vero. La nuova strategia di Cosa Nostra è stata non rendersi visibile in modo da scomparire agli occhi dei media. Ha funzionato: la gente e i giornali hanno creduto che se non c’erano più assassinati per strada da fotografare voleva dire che la mafia stava scomparendo. Invece era diventata più subdola e per questo più pericolosa. Continuava a seminare morte (sociale ed economica) senza bisogno di spargere sangue.
Nel libro si susseguono in un cortocircuito l’interno di una baracca sulla circonvallazione e quella di una sfarzosa festa a palazzo Ganci, un ragazzino che alla Vucciria si atteggia a killer e la bara di un morto per overdose. Perché?
Perché la mafia non ha sempre usato la pistola per dominare. Oltre i morti ammazzati, la mostruosità della mafia si rappresenta attraverso il degrado e la desolazione che produce. Certo con la macchina fotografica non riesci a raccontare la corruzione. La corruzione politica, le infiltrazioni negli appalti pubblici, i traffici di droga, questa è la grande tragedia collettiva. Io e Franco Zecchin denunciavamo la società compiacente, la società incapace, preda di Cosa Nostra. Rappresentavamo i presupposti e gli effetti sulla gente.
Mogli, madri, figlie, fidanzate, sorelle. Il dolore nei suoi scatti ha un volto femminile.
I miei soggetti prediletti sono le donne, in esse mi rispecchio, le so interpretare meglio. Per me sono le vestali di un dolore antico. Un dolore che talvolta diventa disperazione e sconvolge il loro corpo trasformandole in scalze prefiche greche, e altre volte strazio ritualizzato mentre siedono composte in strada vegliando il morto.
I palermitani che accorrevano a guardare i morti assassinati erano solo mossi da curiosità? Lei ha percepito negli anni una progressiva presa di coscienza e di ripudio nei confronti del fenomeno?
All’inizio la gente pensava che quella violenza fosse un problema interno fra mafiosi. Una vera antimafia ha preso il via dopo la morte di Peppino Impastato, con il movimento a lui dedicato di cui io faccio ancora parte. Facevamo mostre, dibattiti, manifestazioni, sebbene fossimo in pochi a impegnarci.
Fu in quel periodo che lei allestì insieme a Zecchin una mostra fotografica sulla mafia a Corleone, proprio nella roccaforte delle famiglie più potenti. Coraggio o incoscienza?
Tutte e due, naturalmente. Arrivammo durante una festa patronale verso mezzogiorno. La piazza era strapiena. Iniziammo a mettere fuori i pannelli dell’esposizione e la gente si avvicinò per vedere di cosa si trattasse. In un attimo la piazza si svuotò. Avevano paura di prendere coscienza ed essere coinvolti. Vi assicuro che di paura ne avemmo tanta anche noi in quel momento.
Come mai in Dovere di cronaca vi sono poche immagini di arresti?
La gente con le manette mi fa pena. Un carcere pieno è una sconfitta sociale, tanta vita sprecata! Quando Leoluca Orlando fu eletto sindaco per la seconda volta, gli chiesi di fare la consulente all’Ucciardone. Qui aprii un ufficio comunale per aiutare familiari e detenuti. Credo che la riabilitazione sia non solo possibile ma doverosa. Naturalmente è inutile per i pesci grossi.
Avrebbe voluto fotografare la cattura di Provenzano?
Sì certo, ma l’avrei voluto fotografare anni fa! Se l’avessero fermato prima, Falcone e Borsellino sarebbero ancora vivi. I sanguinari li ho voluti fotografare tutti. Per Bagarella ho aspettato ore prima di poterlo fare. Mi aveva colpito molto il dramma della moglie uccisa perché sorella di un pentito, e lui non aveva mosso un dito. Ho fotografato l’arresto di Luciano Liggio sebbene mi intimorisse, aveva uno sguardo terribile. Ricordo che mi tremavamo le mani. La maggior parte delle foto di quel giorno vennero mosse.
Quale fotografia non è riuscita scattare?
Quella di Boris Giuliano, capo della Mobile di Palermo. Uno sbirro che ho amato e ammirato molto, un uomo coraggioso che sfidò la mafia per dare un futuro alla Sicilia. Lo uccisero in un bar nel 1979. Tutti noi che accorremmo lì, non solo i suoi collaboratori, eravamo disperati. È stato un bene non fotografarlo perché lui era un grande e non era giusto mostrarlo così. 
E quale è stata la più difficile?
Tutte. L’obiettivo non è uno scudo che ti protegge, un diaframma che ti riveste di una invulnerabilità emotiva. Le mie foto non sono il risultato di freddezza, cinismo, lucidità; ognuna mi è costata molto interiormente. Fra l’altro dovevo spesso difendermi dalle ire, gli sputi e le minacce dei parenti delle vittime di faide tra cosche.
È stato duro farsi valere nell’ambiente giornalistico?
All’inizio sì. La società non era abituata a vedere una ragazzina bionda che girava con la propria auto, pronta a stare in piedi per ore e non mollare fino a quando non riusciva a passare e fotografare la scena del delitto. Ho dovuto conquistare la fiducia di tutti. Ancora oggi però ci sono poliziotti che mi ricordano con affetto.
Anche se Cosa Nostra non è più messa a fuoco nel suo “mirino” continua sempre ad occuparsene?
Non ho mai smesso. La mia militanza antimafia l’ho praticata non solo con le foto ma attraverso l’impegno civile nel Centro Peppino Impastato, la politica, l’attività di assessore all’ambiente.
Adesso cosa fotografa?
Bambine, con quel loro particolare sguardo pieno di sogni. A loro, che ci danno tanta forza, dobbiamo restituire la speranza.
Letizia ora non ha più voglia di parlare del passato: il futuro, l’energia dei giovani, la vita. Questo è l’obiettivo della nuova Battaglia. 
01/06/2006