Francesco La Licata*

Scacco al boss

CONDIVIDI

Con l’arresto di Bernardo Provenzano termina una delle carriere criminali più lunghe. La storia del super latitante tra omicidi e pizzini

Scacco al boss

Erano le 11,28 dell’11 aprile quando Lirio Abbate, cronista dell’agenzia Ansa di Palermo, batteva il “lancio” che ogni giornalista avrebbe voluto firmare: “Catturato Bernardo Provenzano”. Uno scoop che in breve si è propagato nel mondo. Arrivato in tempo reale fino alla masseria di Montagna dei Cavalli (territorio tra Campofiorito e Corleone) dove il “cacciatore”, il vicequestore dello Sco Renato Cortese, appena sette minuti prima aveva ammanettato uno dei due latitanti (l’altro è Bin Laden) più famosi e ricercati del mondo. E così, prima ancora che il vecchio don Binu potesse riaversi dalla sorpresa, in contemporanea con la prima ammissione sfuggita (“Sì, sono io”), il Padrino poteva gettare uno sguardo sbigottito sul televisore acceso che mandava in sovraimpressione il “nastro” col titolo: “Catturato Bernardo Provenzano”.
Era la fine di uno scandalo durato quasi 43 anni, lo scandalo di una latitanza lunga e indisturbata, spesso al centro di sospetti e polemiche che avvelenavano persino la civile convivenza della comunità politica e istituzionale. Ma era anche, per dirla con le parole del procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, “la fine di un incubo, di un complesso d’inferiorità rispetto a Cosa nostra, la fine del mito dell’invincibilità della mafia”.
Potrà sembrare incredibile, ma proprio quell’uomo minuto, apparentemente fragile, ignorante e incerto nella lingua, quel contadino trasfigurato dalla retorica giornalistica, magnificato nelle cronache e descritto ingiustamente come una sorta di superuomo, è stato per decenni il “buco nero” di una storia – quella della mafia e della lotta alla mafia – andata avanti non sempre in modo lineare. Eppure la “primula” è stata presa con la semplice arte delle indagini, senza, cioè, il ricorso al complicato mondo dei cervelli e mezzi “raffinatissimi”. Adesso ci sarà, come sempre accade nelle storie di mafia e, soprattutto, nelle vicende palermitane, ci sarà chi si chiederà se si è svolta una trattativa, se il boss si è consegnato o se è stato mollato da Cosa nostra. Un dibattito vecchio, questo. Una specie di “automatismo siculo” che in presenza di ogni sconfitta della Piovra, si adopera quasi per cercare qualcosa che neghi (o attenui) la defaillance mafiosa: e allora lo Stato vince solo quando vuole la sua storica controparte. Anche quando arrestarono Michele Greco, il “papa” di Cosa nostra, uno stuolo di osservatori dichiarò solennemente che il boss era stato mollato, visto che se ne stava in un casolare di campagna senza bodyguard armati fino ai denti. Come se non fosse risaputo che i capi di Cosa nostra non usano la violenza se non “quando è strettamente necessario”, ovviamente rispetto alle esigenze dell’organizzazione. E quanta ironia abbiamo dovuto rilevare, oggi, sulla cicoria di Provenzano, sulla prostata malmessa, sulla vita grama inspiegabile per un Padrino superpotente. E invece don Binu è proprio così, come lo abbiamo visto: un dirigente della più potente organizzazione criminale del Paese che non identifica il proprio potere con l’esteriorità di una vita agiata. Ha ragione il capo della Polizia Giovanni De Gennaro quando afferma che “è proprio come me lo immaginavo”.
La storia di Bernardo Provenzano parla per lui. È contadino, è nato povero, è furbo come tutti quelli che si sono industriati per emergere. È mafioso nel sangue, forse non ci sarebbe stato neppure bisogno di iniziarlo, dal momento che è stato cresciuto a pane e mafia. Aveva poco meno di quindici anni quando entrò, col compare Totò Riina un po’ più grandicello di lui, nella squadra di Luciano Liggio. Così nasceva, alla fine degli anni Cinquanta, il gruppo dei corleonesi, i viddani – per dirla con gli spocchiosi esponenti dei clan palermitani – la mafia tanto megalomane da aver pensato di poter capovolgere la tradizionale scelta di non belligeranza con la controparte istituzionale nel delirio stragista, che, purtroppo, abbiamo vissuto nel ’92 e nel ’93. Già, il lungo cammino dei corleonesi: gli assalti alle Camere del lavoro per frenare l’avanzata delle lotte dei contadini, la fine di Placido Rizzotto (sindacalista siciliano ucciso nel 1948, ndr), l’ingordo assalto alle ricchezze degli appalti pubblici e del “sacco edilizio di Palermo”, l’amicizia con la nobiltà parassitaria e con una borghesia imbelle e di bocca buona, la complicità con gli amministratori corrotti.
Di questa strategia Provenzano è stato gestore, più che un capo. don Binu ha sempre scelto il basso profilo, la tendenza a stare un passo indietro, fino a far passare l’ingannevole immagine di sé di uomo moderato, di mediatore appassionato, di dirigente prudente.
Ma non è così. Anzi, non è stato sempre così. Il suo potere, la sua vita affondano le radici nel sangue. E non solo in tempi tanto remoti da essere stati dimenticati. No, don Binu – che Tommaso Buscetta chiamava “u tratturi” per dar l’idea della sua capacità di travolgere ogni tipo di resistenza avversa – è stato in prima linea ogni volta che i corleonesi hanno cominciato una guerra di mafia. A viale Lazio, il 10 dicembre 1969, era ancora operativo Liggio (cocciu di focu) e la squadra corleonese fece piazza pulita dei palermitani. Fu strage e lui, Provenzano – che si era prefisso di recuperare una pericolossima (se fosse stata scoperta) mappa scritta della mafia siciliana e custodita nei calzini di Michele Cavataio – si avventò su don Michele. Per sua fortuna potè ascoltare il clic dell’arma avversaria che si inceppava. Ma anche il suo revolver era ormai scarico e allora finì Cavataio a colpi di calcio della pistola. Non si sa se recuperò il documento che cercava.
E non si tirò indietro quando Riina avviò la “risoluzione finale” contro i palermitani. Centinaia di morti ammazzati e la sistematica decapitazione delle istituzioni che cercavano di opporsi allo strapotere mafioso: Russo, Giuliano, Francese, Dalla Chiesa, Ciaccio Montalto, Chinnici, Costa, Scaglione, Basile, D’Aleo, Mattarella, Reina, Terranova, Montana, Cassarà, La Torre, Zucchetto, le scorte di tutti gli uomini dello Stato massacrati. Fino alla scelta estrema di non disertare neppure davanti alla determinazione stragista, pur rimanendo sempre nel ruolo del mediatore occulto, grazie al suo “doroteismo di natura”, per dirla con Gaetano Savatteri, autore di un arguto ritratto di don Binu. Non diserta, ma con qualche accorgimento: quello di rimandare a casa, a Corleone, Benedetta Saveria Palazzolo, la moglie, e i due figli (Angelo e Francesco Paolo). Era il 5 aprile del ’92 e fino a quel giorno la famiglia era stata unita in latitanza. Perché quella decisione improvvisa? Una necessità strategica: tenere i congiunti al riparo dall’ondata repressiva che si sarebbe abbattuta su Cosa nostra dopo l’esecuzione della programmata (23 maggio successivo) strage di Capaci contro Giovanni Falcone e Francesca Morvillo.
Altro che moderato, il contadino di Corleone. Certo, forse avrà subìto la supremazia di Riina e pure quella di Leoluca Bagarella (che alle contestazioni interne sulla scelta stragista, in “commissione” rispondeva: “Fin quando c’è l’ultimo corleonese fuori, tutto continuerà come prima”), ma non ha mai preso le distanze. Il moderato, semmai, l’ha fatto per necessità. Esattamente dopo l’arresto di Totò Riina, di Leoluca Bagarella e di Giovanni Brusca, i “generali” che si erano intestati la battaglia cruenta per cercare di condizionare l’attività repressiva dello Stato ed ottenere che si allentasse la repressione e specialmente il carcere duro, dopo le stragi. Ma una volta in gabbia Riina e Bagarella, dopo la diserzione di Brusca (divenuto pentito), non rimaneva che la via del basso profilo: rendere invisibile la mafia attraverso il silenzio delle armi e cercare di traghettare l’organizzazione di nuovo verso la tradizione del quieto vivere. Così arriva la cosiddetta “riforma Provenzano”: abolizione della “Cupola” intesa come tavolo di comando unico, solo quattro grandi mandamenti affidati a uomini di stretta fiducia, assoluto divieto di prendere iniziative cruente “per non finire sui giornali” e grande attenzione per gli appalti e le estorsioni, da gestire in modo da non provocare attriti e conflitti tra le famiglie.
Così, in dieci anni di silenzio delle armi, è nato il mito di Provenzano moderato. Un mito alimentato dallo stesso boss, dallo stile che si è dato. Chi lo ha visto non lo descrive come un capo autoritario, ma come un attento amministratore di sistema molto cauto che riesce, proprio grazie a questa vocazione quasi sacerdotale, a dispensare consigli e soluzioni. I suoi “pizzini” non sono ordini, ma capolavori di saggezza: “Chi sono io per dirci come si devono comportare?”; “Ordini non ne posso dare a nessuno e cerco chi li possa dare a me”; oppure il dubbio filosofico: “C’è da scoprire la verità, cosa difficilissima trovarla in questi argomenti e persone. Tu vedi che tutte e due le parti dicono: “questa è la verità”. Ma la vera verità chi la sta dicendo dei due?”. Le riflessioni che prende dalla sua “amata” Bibbia – forse la chiave usata per criptare i messaggi – rafforzano l’immagine di custode di una (inesistente) tradizione buona. Chissà a chi pensa quando copia il versetto che recita: “È scomparsa la fedeltà dei figli dell’uomo”. Chissà se, mentre scrive ai figli indicando la “via retta” che “con l’aiuto di Dio” non si deve mai smarrire, si ricorda di tutti gli innocenti che ha privato del prezioso bene della vita. 
*Inviato de La Stampa di Torino
01/06/2006