Roberto Gervaso

Galeotta fu la multa

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Ragazzo, cinque cose avrei voluto fare: il cantante, il clinico, il pasticciere, il giornalista o il poliziotto. Ho fatto il giornalista e, tutto sommato non mi è andata male. Ma il rimpianto di non aver indossato la divisa di agente di pubblica sicurezza

Galeotta fu la multa

Cosa volete che vi dica, sarò all’antica, ma ogni volta che vedo un agente di pubblica sicurezza è come se vedessi la Madonna di Lourdes o il mio angelo custode. A me le forze dell’ordine piacciono, mi fanno sentire più tranquillo. Mi fanno sentire tranquillo anche quando sono tranquillo. Peccato che io non sia mai tranquillo. O, forse, è meglio così.
Ragazzo, cinque cose avrei voluto fare: il cantante confidenziale alla Sinatra o alla Nat King Cole, il clinico alla Frugoni o alla Condorelli, il pasticciere, specializzato in mont blanc e zuppa inglese, il giornalista, il poliziotto. Ho fatto il giornalista grazie anche a due grandi maestri, Indro Montanelli e Giuseppe Prezzolini. Non me ne pento, non mi è andata male. Ma il rimpianto di non aver indossato la divisa di agente di pubblica sicurezza resta. Pazienza. Per chi, come me, crede, o vorrebbe credere alla reincarnazione, l’appuntamento è solo rinviato. Non chiedetemi a quando perché non lo so.
Io, con la polizia, nella fattispecie quella stradale, ho un debito, un grande debito. Una decina di anni fa – non avevo ancora trionfalmente, o mestamente, varcato le colonne d’Ercole dell’andropausa – ero in macchina con un amico diretto a Napoli. Lorenzo, che amava pazzamente la Formula uno e portava sul cruscotto le foto dei mitici Tazio Nuvolari e Alberto Ascari, di cui si sentiva il mancato erede, commise l’imprudenza di sorpassare con guizzo temerario la Maserati blu che ci precedeva. Non si era accorto (perché non ci se ne accorge mai) che già da qualche chilometro ci seguiva e ci teneva d’occhio: una pattuglia della stradale. Poco prima di Valmontone, questa ci superò, facendoci cenno di seguirla. Dopo qualche centinaio di metri, ci fermammo a un autogrill. Il mio amico mostrò patente e libretto di circolazione e una salatissima multa fu il giusto prezzo di quella incauta bravata.
Prima di ripartire per Napoli, dov’eravamo diretti, andammo al bar dell’autogrill. Io bevvi un orzo in tazza grande; il mio amico, un caffé doppio in tazza più grande ancora. Mentre chiacchieravamo – io rimproverandogli quell’intemperanza, lui cercando pateticamente, e vanamente, di giustificarsi – si avvicinò a Lorenzo una splendida donna in uno splendido tailleur di Chanel, tacchi a spillo, borsa griffata, trucco da diva hollywoodiana sul set. Lui mi presentò a lei come uno dei suoi più cari amici e mi presentò lei come una delle sue più care amiche (non avevo mai visto una donna più elegante e affascinante). Gli raccontò la nostra disavventura e Lairana, si chiamava così, disse che la Stradale aveva fatto benissimo a fermarci, a multarci, ad ammonirci. Era capitato anche a lei di violare il codice della strada, e anche lei aveva pagato il fio della temeraria spericolatezza. Ma, da quel giorno, guidava con prudenza, e ogni volta che incrociava agenti della polizia, sorrideva riconoscente a chi, con quella sacrosanta contravvenzione, le aveva rimesso la testa sul collo. 
Stavamo per salutarci – andava anche lei a Napoli – quando il mio amico, che mi aveva letto nello sguardo, ebbe un’idea di cui non gli sarò mai abbastanza grato. Mi disse: “Perché non sali in macchina con Lairana, che viaggia da sola, e non ci rivediamo al casello di Napoli?”. Annuii e l’idea piacque anche all’amica, che stranamente gradì la compagnia, non facendomi, come temevo, sentire un intruso.
Da un mese si era lasciata con il compagno e non doveva quindi render conto a nessuno di ciò che faceva. Era libera, liberissima, come libero, liberissimo ero io. A me sembrò di toccare il cielo con un dito. Anzi, con tutt’e due le mani. In quel momento, passò una macchina della polizia e io la benedissi. Quanto disordine avevano messo nel mio cuore le forze dell’ordine. Che colpo di fulmine. Mai mi ero sentito trascinare così in alto.
Splendeva un sole magnifico e l’aria era tiepida e piena di languori. A un certo punto chiesi a Lairana: “Perché non infiliamo la prossima uscita e andiamo a Labico, da Antonello Colonna, principe degli chef?”. Un ristorante con soli sei tavoli, ma con tre stelle Michelin. Se era d’accordo, avrei poi chiamato al cellulare Lorenzo per avvertirlo che avremmo ritardato. Ci saremmo rivisti direttamente in albergo, a Napoli. L’idea le piacque e così cambiammo programma.
Mai scelta fu più felice. Mangiammo come meglio non avremmo potuto e bevemmo con moderazione un prelibatissimo Brunello. Alle quindici, ci alzammo da tavola e, per smaltire, lei, un fantastico carré d’agnello al mosto cotto e carciofi; io, una deliziosa guanciola di manzo brasata con purea di patate alle erbe, facemmo una lunga passeggiata per le strade e le stradine di Labico. Quando risalimmo in macchina, sembravamo due fidanzatini di Peynet. Ero innamorato di Lairana e lei lo era di me.
E tutto questo grazie alla pattuglia della Stradale che aveva fermato il mio amico. Se Lorenzo non avesse guidato in quel modo, se non avesse messo a repentaglio la sua, e la mia, incolumità e, forse, quella di altri automobilisti, io, Lairana, non l’avrei mai conosciuta.
Ora che è mia, e mia soltanto, quando viaggiamo in macchina, siamo più prudenti di un acrobata sulla corda lenta. Mai un sorpasso avventato, mai troppa velocità, mai un’infrazione. E non per paura di finire sotto gli occhi e sui verbali della Stradale, diventata la più amica delle nostre amiche, ma perché, senza confessarcelo, temiamo che un’imprevista e inopinata sosta a un autogrill possa esser foriera d’incontri indesiderati e fatali. La fortuna è avara: bussa una sola volta.
Se un giorno dovessimo sposarci e, prima o poi, ci sposeremo, vorremmo come testimoni gli agenti della Stradale pronubi del nostro incontro. Quanto ci piacerebbe farci scortare da loro in luna di miele. Un desiderio irrealizzabile, lo so. Ma noi amiamo sognare. Al suono delle sirene del 113.
01/06/2006