Toni Capuozzo*
La guerra di Miguelito
La storia di uno dei trecentomila bambini soldato che in tutto il mondo combattono i tanti conflitti non dichiarati. Docili e ubbidienti, crescono uccidendo e muoiono giocando
In un angolo del mio tavolo di lavoro c’è una piccola scultura che ho comprato a Baghdad. La trovai un mattino di quiete in una galleria d’arte, e mi colpì subito, in mezzo a sculture più grandi e ai quadri. Finsi un interesse blando, come si deve fare in un bazar, e tornai giorni dopo. Chiesi il prezzo della statuetta, e dissi che era troppo. La comprai alla terza visita, a un prezzo che mi parve equo. E allora, bevendo il tè che sigillava il piccolo affare, la strinsi in mano: la figura di un soldato-ragazzino, avvolto in un cappotto troppo grande per lui, affondato in scarponi militari troppo grandi per lui. Non aveva nulla dell’atteggiamento di sfida infantile che qualche volta hanno le immagini dei soldati ragazzini. Invece levava il braccio come a coprire il volto, come a non voler più guardare l’orrore. È per questo che la volevo, e poco importava che fosse l’orrore della guerra sullo Shatt El Arab, dove i richiamati al fronte da Saddam combattevano infinite battaglie contro i ragazzini pasdaran iraniani mandati avanti a far scoppiare le mine nelle paludi: era l’orrore di ogni guerra, guardata con gli occhi di un ragazzino, coperto da un braccio esile nella manica sollevata.Le guerre dei soldati ragazzini possono essere raccontate in tanti modi.
Ci sono le loro storie: sempre terribili. C’è la lotta al fenomeno, che ha prodotto quattro anni fa un Trattato sottoscritto da 111 Paesi, che vieta l’utilizzo di bambini soldato. C’è la rassegnata constatazione che i Paesi sottoscrittori non sono quelli che mandano i bambini in guerra, e spesso a farlo non sono Stati, ma bande fuori da ogni convenzione, e da ogni possibile controllo. Ci sono le mappe dei bambini in guerra, che si distendono su quelle parti del globo dove l’infanzia è negata in tanti modi, dallo sfruttamento lavorativo a quello sessuale: non sono posti dove si giochi, e le armi in mano ai bambini sono la continuazione di un’infamia che regna anche in tempi di pace. C’è la bruciante realtà di mondi nei quali tutto è precoce: i raccolti dei campi come i matrimoni, l’età adulta come le guerre vere al posto dei giochi.
Ci sono i numeri: si calcola siano almeno trecentomila, i bambini che stanno combattendo, o che impugnano armi. Ai quattro angoli del mondo, dal Sudan al Congo, da Myanmar al Nepal, dalla Colombia al Messico. Alcune volte strappati a forza alle famiglie, altre reclutati tra i profughi o tra i ragazzi di strada con la facile e losca persuasione con la quale qualunque adulto può convincere un bambino a fare una cosa da grandi. Sono combattenti docili, che nascondono la paura come solo un bambino può fare, che ubbidiscono come solo un bambino può fare, che sanno fare del male con l’assenza di scrupolo con cui un bambino taglia la coda a una lucertola. Sono combattenti adatti a guerre non convenzionali, nelle quali l’unica novità tecnologica sono le armi leggere, facili da impugnare e portare. Sono perfetti, questi bambini, per passare le linee di fronte come messaggeri, portaordini, spie, informatori. Sono la carne fresca di guerre interminabili, quando è difficile rimpiazzare i caduti. E sono perfetti in guerre che da tempo hanno smesso di considerare i civili un tabù da rispettare: le vittime, ormai, non portano più la divisa dei belligeranti, i civili hanno smesso di essere un errore collaterale e piuttosto vengono cercati come bersagli privilegiati.
Ci sono i ricordi, per raccontarli, ed è forse il modo più giusto, l’unico che sottragga un volto e un nome alla schiera dei grandi numeri, dei destini collettivi, all’esercito senza nome senza volto dei bambini in guerra. Miguelito, così lo chiamavo. L’avevo conosciuto mentre giravamo un lungo documentario tra i monti della valle di Morazàn, in El Salvador. Era una striscia di territorio che la guerriglia definiva, pomposamente, liberato. In realtà era piuttosto un’area spopolata e montuosa, che mal si addiceva alla superiorità tecnologica dell’esercito, che invece si accontentava di controllare la strada del fondovalle, l’unica asfaltata della zona, che i contadini chiamavano per questo calle negra, la strada nera. Le bande della guerriglia erano fatte di studenti fuggiti dalle città, venuti a dare corpo a un sogno ideologico, destinato a finire male. A loro si erano aggiunti i contadini dei Paesi attorno, in qualche caso attratti dal miraggio di una riforma agraria, e più spesso spinti dalla brutalità di una repressione che, per fare il vuoto attorno ai guerriglieri, bruciava capanne e uccideva a caso. I contadini si erano portati, spesso, le donne e i figli, e le colonne guerrigliere erano diventate delle piccole carovane zingaresche, i santuari della guerriglia erano dei piccoli paesi con qualche animale al seguito, qualche campo seminato a mais, torme di bambini impegnati in eterne partite di calcio. Molti dei combattenti erano chavalos, ragazzini più piccoli dei fucili male assortiti delle compagnie. Ma su tutti spiccava Miguelito. Lo avevo notato in una di quelle polverose sedute di addestramento in cui gli istruttori insegnavano a stare inquadrati, a battere il passo militare, a impugnare le armi. Erano ore patetiche, perché non avevano nulla a che fare con la velocità, la sorpresa, il mordi e fuggi, le attività di commando che avrebbero dovuto essere il pane quotidiano di una guerriglia. Non smontavano armi al buio, e si limitavano a lucidarle con latte di olio annerito, come se dovessero partecipare a una sfilata, invece che combattere. Del resto non ce n’erano per tutti, di armi. Alcuni si accontentavano di un machete. Miguelito impugnava un fucile di legno, lasciandoti intatto il sospetto che fosse passato direttamente dai giochi alla realtà, senza rendersene conto. Era moro e grassottello e da lontano la cosa che colpiva di più, in quella sagoma minuscola in mezzo alla compagnia schierata era un berretto da baseball giallo, con la visiera calcata sugli occhi: la prima volta che lo avvicinai, alla fine dell’adunata, capii subito perché: aveva un occhio che andava per conto suo, cieco. Ed era evidente che nell’impegno che ci metteva, a tenere il passo, a sollevare l’arma sulla spalla, a poggiarla accanto ai piedi divaricati, ci fosse la rivincita su tanti cattivi scherzi infantili, la caparbia dimostrazione che anche senza un occhio lui, Miguelito, era buono per la guerra come tutti gli altri, e forse meglio. Non so chi l’avesse reclutato, ma era evidente che non c’era modo di convincerlo a tornare bambino a pieno titolo, ad avere cura dei suoi tredici anni. Quei giorni in montagna furono giorni di marce e trasferimenti, e non di battaglie. Stavano studiando il piano di attacco a un paese, che poi avrebbero preso issando una bandiera sull’alcaldia, lasciando sul terreno i corpi di qualche guardia campestre e di qualche sospetto collaboratore, e ritirandosi prima dell’arrivo dell’esercito, felici di una vittoria da proclamare. Ma non era previsto che Miguelito vi prendesse parte, era addetto a rifornimenti di munizioni e di viveri, a lunghe marce notturne tra un campo e l’altro. Era ostinato: nonostante lo caricassero alla india, con un carico poggiato sulla schiena e retto da una fune che si avvoltolava sulla fronte, si portava sempre dietro il fucile di legno, come fosse una dichiarazione di principio. Ma era anche un bambino, e lo rivelava in certi sorrisi, e nelle partite di calcio o nell’appetito con cui si riempiva di tortillas, e nelle chiacchierate quando non c’erano altri adulti davanti a cui mostrare spavalderia. A distanza di molti anni dal giorno in cui lasciai quella storia, ogni volta che sento parlare dei bambini soldato penso a lui, e mi chiedo che fine abbia fatto. Se infine sia arrivato a combattere una battaglia, e se sia sopravvissuto. Se abbia preso la mira con l’unico occhio, e abbia ucciso. Se sia tornato in pace al suo paesino, un ragazzo senza più scuola, e senza mestiere, e con troppo passato per essere un ragazzo.
Il peggio, forse, viene dopo, come racconta il duro lavoro, a guerre finite, delle smobilitazioni, di bambini diventati piccoli uomini che non sanno tornare a una vita normale, che spesso non hanno famiglie a cui tornare, che hanno incubi al posto dei ricordi. Che uomini saranno questi bambini che hanno visto uccidere e morire, e spesso hanno ucciso? Nel decennio delle guerre balcaniche è stato spesso ricordato che tutti i leader delle parti in conflitto erano ragazzini, durante la seconda guerra mondiale, ed è stato come se avessero ricevuto un imprinting, se ne avessero riportato, come una cicatrice dolente, l’impulso a ripetere la lezione nel modo peggiore, ricominciando daccapo. Noi stessi, quando lasciamo ai nostri ragazzini iperprotetti e destinati a infanzie e adolescenze lunghe, senza responsabilità e al riparo da ogni difficoltà, quando li lasciamo sfiorare dalle immagini di un mondo violento, non sappiamo quali segnali lanciamo, quali paure incutiamo, quali adulti prepariamo.
Quando uscii con la statuetta in mano dalla galleria di Baghdad, mi fermai sulla porta e chiesi, come per uno scrupolo, al gallerista che cosa avesse voluto significare secondo lui l’artista con quel gesto. Cercavo una conferma, o un certificato, o una garanzia, in un certo senso. “Bè… è facile – mi disse – è un soldato ragazzino che si sta pulendo il moccio con la manica, è poco più che un bambino”. Da quel momento la statuetta mi è diventata più cara, senza il gesto adulto del distogliere lo sguardo, e la rivincita di quell’essere bambino, nel cappottone, senza fazzoletto.
* Inviato speciale del Tg5
01/05/2006