Dora Petrolino*
Il viaggio verso la parità
Con la riforma del 1981 le donne vengono ammesse alle funzioni di polizia. Un importante traguardo di un cammino iniziato all’indomani del secondo conflitto mondiale
Credo di essere una delle poche ad aver conosciuto “le triestine”, le appartenenti alla Polizia civile costituita dall’amministrazione militare anglo-americana nel Territorio Libero di Trieste. La loro ammissione nelle forze dell’ordine, a parità di trattamento economico e di stato giuridico con il personale maschile, fu possibile perché la città di Trieste all’epoca non era sotto il governo italiano; nel restante territorio nazionale, invece, l’ingresso delle donne in polizia (come nella magistratura, e in molti altri settori della pubblica amministrazione) era vietato dalla legge, oltre a essere del tutto estraneo alla mentalità comune.
Infatti quelle pioniere, una volta passate alle dipendenze del Commissario generale del Governo per il Territorio di Trieste, furono impiegate in compiti amministrativi e nel 1960 una ventina di loro confluirono a richiesta nel Corpo di Polizia femminile appena costituitosi.
Non si vollero, però, affidare alle donne le stesse attribuzioni del personale maschile, come aveva fatto il governo militare alleato, ma nemmeno compiti di supporto amministrativo-logistico (sul modello delle “ausiliarie” di alcuni eserciti stranieri). L’idea fu di inserire negli uffici di polizia un ristretto nucleo di personale femminile con particolare qualificazione, che, partendo dall’accertamento di alcune tipologie di reati, evidenziasse situazioni di disagio personale, familiare, a volte anche sociale, che riguardavano donne o minorenni, e tentare di porvi rimedio.
Per questo motivo, malgrado la limitatezza, e direi la modestia, delle funzioni di polizia da affidare alle interessate, a esse vennero chieste la laurea o il diploma di scuola media superiore. In pratica, il Corpo nacque con la testa (le ispettrici, laureate), le braccia (le assistenti, diplomate), ma senza le gambe, cioè senza un ruolo di agenti.
Ciò nonostante, nel 1968, quando entrai nel Corpo, mi resi conto che, al di là delle intenzioni del legislatore, aveva finito per prevalere un atteggiamento più pragmatico che aveva portato a utilizzare il personale femminile prevalentemente in compiti burocratici, o in funzioni indispensabili, ma di basso profilo (perquisizione, custodia e accompagnamento di donne e minorenni trattenuti), che solitamente svolgevano i semplici agenti uomini.
Più rilevante fu l’attività da noi svolta su richiesta della magistratura minorile, la quale seppe apprezzare il vantaggio di poter utilizzare persone che da un lato avevano i mezzi, i poteri, la mobilità e la continuità di servizio delle tradizionali forze di polizia, e dall’altro erano dotate di cultura, preparazione specifica, e sensibilità.
Una pietra miliare nella storia della polizia femminile fu l’intervento nella valle del Belice, a seguito del disastroso terremoto del 14 gennaio 1968. Sul posto furono inviate un buon numero di ispettrici e di assistenti, che per mesi furono impegnate nel soccorso alle popolazioni colpite, soprattutto attraverso la gestione delle tendopoli. Per questa attività, oltre ai riconoscimenti individuali, venne conferita al Corpo la medaglia di bronzo al merito civile.
Poi ci furono le trasformazioni della società negli anni ’70: fu modificata la legislazione civile e penale, e i corpi di polizia municipale cominciarono ad ammettere personale femminile, con mansioni e stato giuridico identici a quelli degli uomini. Lo stesso fecero, anni dopo, anche alcuni corpi di vigilanza privata.
Si cominciò, quindi, a riconsiderare la presenza delle donne nell’amministrazione della pubblica sicurezza, anche in vista di una globale riforma, che veniva fortemente sollecitata da varie forze politiche. A tal fine, nel 1975 furono costituiti, con una circolare del ministro dell’Interno, i “Comitati di rappresentanza” del personale civile e militare di polizia, dei quali io stessa feci parte, e nei quali, per prima cosa, si discusse su come dare uno status diverso al personale femminile.
Una spinta decisiva verso la parità fu data dalla legge Anselmi (903/1977), con cui fu vietata, in materia di accesso a qualunque lavoro, ogni discriminazione tra uomini e donne. Fu grazie a questa legge che, nel 1979, poterono accedere al ruolo dei commissari, a parità assoluta, le prime due donne. Cosicché nelle questure si trovarono a convivere, per un paio d’anni, due categorie di laureate: la prima con compiti limitati, e la seconda con la pienezza delle funzioni di polizia. Fu una conseguenza logica, quindi, che la “riforma della polizia” del 1981 stabilisse che personale maschile e femminile avessero parità assoluta di mansioni e di carriera.
Oggi comuni sono i concorsi, la formazione iniziale, la partecipazione a corsi di specializzazione o di qualificazione. Inoltre vi sono, o vi sono state, donne con l’incarico di questore, dirigente di commissariati o di sezioni della polizia stradale, direttore di istituti di istruzione; altre sono piloti di elicottero, o istruttore di tiro, di difesa personale, di tecniche operative, di scuola guida.
Se le donne hanno conseguito la piena parità giuridica, non altrettanto può dirsi per ciò che concerne la situazione di fatto: le particolari esigenze del servizio di polizia rendono tuttora difficile, malgrado i lodevoli sforzi fatti negli ultimi anni dal legislatore, conciliare l’impegno professionale con la cura della famiglia. Questo fa sì che le opportunità di progressione in carriera e di accesso a incarichi di rilievo siano notevolmente inferiori per le donne, rispetto agli uomini.
L’impegno per il Comitato che ho avuto l’onore di presiedere è proprio questo: individuare e proporre soluzioni normative, e soprattutto organizzative, che, salvaguardando le esigenze di servizio, consentano di conciliare la dimensione professionale con quella personale e familiare.
*Presidente del Comitato per le pari opportunità del Dipartimento della pubblica sicurezza
dal 12 marzo 2001 al 28 febbraio 2006
Il Comitato per le pari opportunità
È una realtà poco conosciuta ma lavora alacremente dal 1997, anno in cui un decreto pro tempore del capo della Polizia lo istituì. Presieduto da una rappresentante dell’amministrazione e composto, in pari numero, da rappresentanti delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative e da funzionari dell’amministrazione, viene rinnovato ogni quadriennio.
Il Comitato ha il compito di proporre misure idonee a creare effettive condizioni di pari opportunità, e di relazionare, almeno una volta all’anno, sulle condizioni oggettive in cui si trovano le lavoratrici rispetto alle attribuzioni, alle mansioni, alla partecipazione ai corsi di formazione e aggiornamento, ai nuovi ingressi, al rispetto della normativa in materia di salute, con particolare riguardo ai rischi per la maternità.
Sono compiti di natura non contrattuale, per cui l’attività del Comitato può definirsi di monitoraggio, di studio e di proposta. Sarebbe quindi erroneo considerare il Comitato come una sorta di parasindacato o di gran giurì, a cui rivolgersi in via alternativa, o come grado superiore di giudizio, per rappresentare situazioni individuali. Tali situazioni sono comunque oggetto di attenzione da parte del Comitato in quanto rispecchiano un orientamento che supera il caso singolo, per diventare un problema di ordine generale.
Per questo motivo il Comitato, pur avendo, anche a richiesta del Dipartimento per le pari opportunità della presidenza del Consiglio, approfondito singoli casi che gli sono stati prospettati, svolge la sua attività attraverso l’osservazione delle situazioni generali, normative e di fatto. Ciò avviene, principalmente, attraverso questionari da compilare in forma volontaria e anonima. I singoli casi, invece, possono essere segnalati alle Commissioni per le pari opportunità nel lavoro e nello sviluppo professionale, previste dall’art. 26 del Dpr n. 395/1995, presenti in ogni provincia.
Ovviamente, il più grande successo che il Comitato possa augurarsi è quello di diventare inutile, di riuscire cioè a consolidare una mentalità e una prassi in cui il problema delle pari opportunità non si ponga nemmeno.