Antonella Fabiani

Professione poliziotto

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In che modo gestire le difficoltà quotidiane, i rapporti con i funzionari e i colleghi. Corrado Ziglio, esperto della formazione, parla dei risultati della sua ricerca sul campo condotta con metodo etnografico

Professione poliziotto

Fare il poliziotto. Rapportarsi con situazioni ogni giorno diverse. Aiutare la gente, gli anziani, i bambini, gli stranieri, combattere i criminali a fianco dei propri colleghi per ore, tutti i giorni, operatori e funzionari. Richiede capacità, qualità, specializzazione; caratteristiche che a volte non bastano, quando sono tanti gli anni passati a contatto con le “brutture della vita”. È possibile mantenere l’entusiasmo per una professione che per molti aspetti è una missione logorante? Un recente libro, Viaggio nelle professioni (edizioni junior), propone un approccio diverso alla dimensione della professione del poliziotto. A uno degli autori, l’etnografo Corrado Ziglio, docente presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bologna, abbiamo chiesto il risultato della ricerca.
Può spiegarci cos’è l’etnografia delle professioni?
Il metodo etnografico studia i contesti professionali come i grandi antropologi hanno studiato le culture tribali. È una metodologia particolare perché il ricercatore non va a intervistare i lavoratori ma vive direttamente la loro realtà. Ho avuto l’opportunità di fare questa esperienza a contatto con i poliziotti negli uffici, nei commissariati, uscendo di notte con le pattuglie per vedere in che modo gestiscono le situazioni che si trovano ad affrontare. Così ho capito che ogni poliziotto orienta la propria professionalità verso il tipo di realtà che si trova a vivere; i minori oppure gli stranieri, tanto per fare qualche esempio.
Lei ha fatto degli studi anche in altri settori lavorativi. Quali differenze ha potuto riscontrare?
Ho fatto ricerche in ambito sanitario a contatto con medici di base, ma soprattutto con medici e infermieri ospedalieri. La differenza fondamentale è che loro passano la vita professionale a gestire il dolore degli altri, i poliziotti a gestire “le brutture del mondo”. In entrambi i casi ci vogliono particolari attrezzature mentali.
Cosa intende per “stile mentale” dell’operatore di polizia?
Parlando con tanti poliziotti ho capito che dopo molto tempo a contatto con situazioni difficili o degradate il rischio è di ingoiare inconsapevolmente una briciola di cinismo ogni giorno. Quello che è importante è la consapevolezza, altrimenti dopo dieci anni che fai questo mestiere hai ingoiato una pagnotta di cinismo. Chi fa il poliziotto dovrebbe sviluppare, attraverso una formazione che va oltre gli aspetti addestrativi della professione, solo quella dose di cinismo sufficiente a fargli affrontare certe situazioni in maniera lucida e tranquilla. Io concepisco una formazione che lo aiuti a gestire la propria emotività e quella delle altre persone in situazioni critiche. Credo che questo sia fondamentale, perché tutta la litigiosità sociale è giocata sull’emotività. Lo sa benissimo chi si occupa della gestione dei “privati dissidi”. Lasciare tutto questo all’intuito del funzionario o chi per lui può diventar rischioso.  
È possibile per l’operatore di polizia mantenere viva la propria sensibilità relazionale anche dopo essere stato a contatto con situazioni difficili?
È possibile. In questi dieci anni ho conosciuto agenti, ispettori, funzionari possedere dopo tanto tempo lo stesso entusiasmo di quando hanno cominciato e una sensibilità straordinaria. Bisogna dire che sono importanti anche le risorse personali, i talenti che si possiedono; un patrimonio che l’Amministrazione dovrebbe accrescere e mantenere attraverso le scuole che sono il cuore della formazione: una formazione che sappia potenziare chi i talenti e le risorse personali le ha già e che sappia insegnare a chi ne è sprovvisto a scoprirle.
Lei parla di vie di fuga adottate dalle persone in contesti lavorativi demotivanti. Ce ne può parlare?
Ho ripreso alcune riflessioni dello psichiatra Wilfred Bion sviluppate negli anni ’60 sul disagio professionale. Lui aveva individuato quattro vie di fuga che io ho applicato ai contesti professionali della Polizia di Stato. In pratica le persone mal gestite sviluppano dei meccanismi di difesa, cioè vie di fuga. Ognuno di noi è una persona che esercita una professione e ognuno di noi ha uno stile caratteriale. C’è chi è introverso, estroverso, permaloso, antipatico, simpatico, eccetera e dobbiamo pensare che è con quelle caratteristiche che svolge il suo lavoro. Questi meccanismi di difesa intrecciati con le dimensioni caratteriali determinano il tipo di via di fuga scelta dalle persone. 
Quali sono?
Le elenco soltanto, perché c’è da lavorare tantissimo sul piano della formazione. La dipendenza innanzitutto (aspettare che il funzionario dica di fare qualcosa altrimenti non si prende l’iniziativa), poi c’è il capro espiatorio (è sempre colpa di qualcuno o di qualcosa se le cose non funzionano), poi la coppia (noi due sì che siamo bravi; gli altri non sanno neanche allacciarsi le scarpe) o il clan (un piccolo gruppo molto chiuso all’interno di un gruppo più grande). l’ultima via di fuga è l’attesa del messia (cambierà tutto quando cambierà il funzionario), addirittura alcuni arrivano a rimpiangere il dirigente precedente del quale si erano lamentati sempre tanto. Questi atteggiamenti non fanno altro che alimentare la cultura della lamentela che è più potente di qualsiasi altra cosa perché il rischio è di adagiarsi e di non reagire più, di non pensare più.
È possibile eliminarle?
Stimolare, incoraggiare, valorizzare i propri collaboratori è la via per annientarle. Un lavoro che va fatto quotidianamente.
Cos’è la cultura della lamentela?
È la febbre del disagio professionale nell’ambito lavorativo. Ogni funzionario dovrebbe evitare che intacchi i suoi uomini e intervenire per impedire che cresca.
Che atteggiamento deve avere l’operatore di polizia rispetto al disfattismo di alcuni colleghi?
Innanzitutto è compito del funzionario capire le ragioni di questo comportamento. Esiste poi un effetto Pigmalione tra colleghi, una capacità di interagire. Anche qui deve intervenire la formazione. Conosco poliziotti che sono riusciti a modificare il comportamento di colleghi ormai fossilizzati in qualche via di fuga. Perché questo accada è importante costruire un rapporto di fiducia tra chi è più motivato e chi non lo è.
Qual è la “cazziata” giusta?
Io parlo di “grammatica del cazziatone”. Una serie di regole non scritte che si basano soprattutto sulla consapevolezza del ruolo. È comprensibile che il funzionario sviluppi una emotività negativa di fronte a un risultato diverso da quello che si aspettava. Ma qui può scegliere di attaccare la persona o l’errore che è stato commesso. Se umilia il collaboratore lo perde, invece se attacca l’errore il poliziotto – ho scoperto – sviluppa un atteggiamento positivo verso il suo funzionario. Capisce che lo sta stimolando a essere migliore.
Che ruolo ha la formazione?
È un momento strategico in cui gli operatori e i funzionari vengono attrezzati non solo sul piano pratico ma anche dal punto di vista mentale. La formazione non può esaurirsi in una dimensione di addestramento e di tecniche professionali ma deve assumere le caratteristiche culturali della professione. Le scuole di polizia dovrebbero dedicare più tempo a questo tipo di formazione perché diventi un patrimonio culturale e professionale soprattutto dei funzionari che poi lo trasmetteranno ai loro collaboratori. Lavorare su questo terreno credo sia importante perché tutti i poliziotti già sanno fare bene il loro mestiere dal punto di vista del know-how tecnico professionale.
In che senso il poliziotto diventa produttore di cultura della sicurezza?
È l’unione tra cultura professionale e capacità di gestire la dimensione emotiva. Perché sono queste capacità a determinare una buona o una cattiva riuscita della performance del poliziotto.
Nel suo studio si analizza l’effetto Pigmalione, riprendendo il mito greco del re scultore che dopo aver plasmato una statua se ne innamorò a tal punto che prese vita. A che proposito ne parla?
Le persone reagiscono a seconda di come si sentono trattate. Se l’utente si sente trattato con attenzione dal poliziotto reagirà positivamente. Viceversa in caso di arroganza o disinteresse il cittadino avrà una brutta impressione delle forze dell’ordine. Esiste anche il Pigmalione rovesciato: i poliziotti reagiscono in base a come vengono trattati dalle persone. Il vecchietto che arriva nel commissariato e insulta gli agenti perché a suo avviso non fanno niente di fronte a un violento litigio nel condominio in cui abita, può scatenare una risposta emotiva nel poliziotto che lo sta ascoltando. Di fronte a un caso simile l’operatore consapevole del suo ruolo non si sente offeso, si fa scivolare (come ho visto fare) l’insulto addosso e gestisce in maniera intelligente il vecchietto incavolato.
In quali altri ambiti agisce?
Anche nella dimensione gerarchica. I poliziotti hanno delle risposte comportamentali che dipendono da come si sentono trattati dal funzionario. Dietro una squadra di poliziotti che funziona c’è sempre un funzionario che sa gestire i propri uomini anche sul piano caratteriale, che ha caratteristiche di leadership e capacità di parlare, ascoltare, motivare i propri collaboratori. È fondamentale che il funzionario comprenda che valorizzare i propri uomini è importante per il funzionamento del gruppo. Ma anche qui, dietro poliziotti motivati c’è un funzionario motivato. La cosa che ho spesso notato e documentato nel libro è che nelle attività di polizia, pur muovendosi dentro paletti giuridici, c’è bisogno di creatività, e che questa caratteristica non può emergere se non c’è anche una dimensione “passionale”. Bisogna insomma credere al proprio ruolo di poliziotto, qualsiasi esso sia. La cosa interessante infatti dell’effetto pigmalione è che tutto questo ricade a cascata: dal questore, al funzionario, al più semplice degli agenti. Questa è la sfida della qualità: il passaggio da una gestione “corretta” ma burocratica a una dimensione di “intelligenza” professionale giocata all’interno di tutti i ruoli dell’Amministrazione.
01/01/2006