di Umberto Galimberti
“città”
Quando per strada sentiamo parlare cinese, arabo, bengalese, mescolati con quello che era il dialetto della nostra città, quando colori differenti della pelle e degli occhi si incrociano, fondendosi con gli odori più strani che provengono da cucine dove si preparano cibi insoliti e un po’ estranei ai nostri gusti, allora abbiamo la sensazione tangibile che la nostra città è entrata davvero nella modernità, nella società complessa, nella globalizzazione, che non è solo internet o movimento di capitali, ma incrocio di lingue, mescolanze di odori, facce diverse da quelle patinate della pubblicità.
Ma poi quando ci capita di storcere il naso perché nauseati dall’aroma che proviene dal ristorante cinese sotto casa, quando esitiamo a salire in ascensore con due nigeriani per altro gentili, quando imprechiamo per la scarsa igiene e il degrado delle nostre vie lastricate di lattine di birra e mozziconi di sigarette, con espressioni più vicine al razzismo che al semplice disagio, ci