di Antonio Di Blasio*
Il trattamento economico per la Polizia di Stato
Lo schema per leggre facilmente le varie voci della BUSTA PAGA.
SITUAZIONE ALLA VIGILIA DELLA LEGGE DI RIFORMA DELLA POLIZIA
Nei primi anni ’80 il “sistema sicurezza” iniziava quel cammino di graduale modernizzazione tracciato dalla legge 1° aprile 1981, n. 121, meglio conosciuta come legge di riforma della polizia.
Il nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubbica sicurezza fece sentire i suoi effetti in tutti i settori, non ultimo quello del trattamento economico di un gran numero di uomini che, già da tempo, rivendicavano una migliore retribuzione e una concreta forma di rappresentanza sindacale.
La legge di riforma intervenne compattando le molteplici “categorie” di personale, sottoponendole, finalmente, a una disciplina omogenea. Veniva così realizzato un sistema economico/retributivo fondato, per tutti gli appartenenti ai ruoli della Polizia di Stato, su una normativa di settore unitaria; condizione, questa, assolutamente impensabile sotto il vecchio ordinamento, nel quale imperava una difficile convivenza tra soggetti giuridici (Corpo delle Guardie di pubbica sicurezza, Corpo della polizia femminile e Funzionari di pubbica sicurezza) il cui rapporto di impiego si basava su fonti normative differenziate, spesso incompatibili tra loro e, per ciò stesso, motivo di divisioni interne capaci di incidere negativamente sullo “spirito di corpo” della complessa organizzazione.
Grazie poi alla sindacalizzazione del personale della Polizia di Stato, il trattamento economico va mano a mano adeguandosi a quelle basilari garanzie già da tempo operanti a presidio degli interessi degli altri lavoratori della pubblica amministrazione.
RADICI NORMATIVE E I PRIMI STRUMENTI DI TUTELA
Con la legge di riforma della polizia il trattamento economico del personale si lascia definitivamente alle spalle quella tanto arcaica quanto inaccettabile visione “unilaterale” del sistema retributivo, in cui non trovavano cittadinanza molti strumenti giuridici capaci di dare voce alle legittime aspettative dei lavoratori di polizia.
Il legislatore, insomma, ha voluto per la Polizia di Stato un sistema economico/retributivo assolutamente nuovo, riconoscendole una funzione trainante nei confronti delle altre forze di polizia (a quel tempo ancora sprovviste di forme di rappresentanza) nonché, anche in questo ambito, un carattere di assoluta “specialità” nel più vasto orizzonte del pubblico impiego (artt. 23 e 43, comma 16, della legge 1° aprile 1981, n. 121). Per quanto concerne, poi, le garanzie introdotte dalla legge di riforma, esse vanno a inserirsi in un contesto ordinamentale volutamente sprovvisto (ieri come oggi) di quel particolare strumento di lotta sindacale costituito dall’esercizio del diritto di sciopero.
Ecco, quindi, perché (e i lavori parlamentari preparatori ne danno chiara conferma) l’art. 95, 3° comma, della legge n. 121/81 non mancò di precisare che qualora l’accordo sindacale non fosse stato raggiunto, il ministro dell’Interno era tenuto a riferire alla Camera dei Deputati e al Senato della Repubblica; marcando fortemente, in tal modo, la relativa responsabilità politica di fronte al Paese.
Pertanto, se da una parte la legge 121/81, con l’art. 84, ha comprensibilmente vietato l’esercizio del diritto di sciopero e di ogni altra forma di lotta sindacale capace di pregiudicare le esigenze di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica nonché l’attività di polizia giudiziaria, essa ha comunque introdotto meccanismi alternativi, poi modificati e affinati nel tempo, fortemente voluti nel 1981 da tutte le componenti politico-sindacali per garantire efficacia all’azione dei sindacati di polizia, privati di un fondamentale e tradizionale strumento di lotta.
NOZIONI E FUNZIONI DEL TRATTAMENTO ECONOMICO
Il trattamento economico rappresenta il momento più qualificante nell’ambito della complessa e articolata disciplina che regola il rapporto di lavoro. Esso si sostanzia nell’obbligo, da parte del datore di lavoro, di corrispondere lo stipendio, e nel contestuale diritto del lavoratore di ottenerlo a fronte dell’attività svolta. Infatti, a norma dell’art. 36, 1° comma, della Costituzione “il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Al datore di lavoro, quindi, viene chiesto di considerare, il più possibile, la “persona” del lavoratore, le necessità di vita sue e della sua famiglia nonché le peculiari condizioni in cui l’attività lavorativa viene in essere (si giustifica così la corresponsione, ad esempio, degli assegni familiari e di ogni altra indennità tesa a “personalizzare” il trattamento economico).
Gli appartenenti alla Polizia di Stato hanno diritto, quindi, a un trattamento economico basato sui principi generali comuni a tutti i dipendenti pubblici e su provvidenze particolari giustificate dalla peculiare attività lavorativa svolta.
La struttura e l’entità del trattamento economico formano oggetto di periodico accordo tra le organizzazioni sindacali della Polizia di Stato e il datore di lavoro/governo, rappresentato dall’Aran (Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni).
Ed è proprio grazie alla legge di riforma della polizia che oggi è possibile realizzare un dialogo sereno e costruttivo tra tutti i soggetti interessati alla contrattazione, dando sfogo alle istanze del personale attraverso la sottoscrizione di quegli importanti documenti conosciuti come Accordi nazionali quadro.
Gli accordi intervengono successivamente alle “intese di comparto” e si traducono in uno schema di provvedimento legislativo, che, approvato dal Consiglio dei ministri, assume la forma del decreto del presidente della Repubblica, con validità quadriennale per gli aspetti normativi e biennale per quelli retributivi.
Rispetto agli iniziali meccanismi di contrattazione sindacale, il legislatore, di fronte alle differenze ordinamentali delle amministrazioni, mil