di Mauro Mazza

Luigi Calabresi, per Esempio...

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Era speciale. Era un eroe. C’è voluto molto tempo perché alla memoria del commissario Calabresi, con la medaglia d’oro al merito civile, fosse restituito il pieno riscatto professionale e morale

Luigi Calabresi, per Esempio...

Se metto a fuoco le lenti della memoria, mi ricordo ancora nitidamente quel mio compagno di classe al liceo. Comprava sempre Lotta Continua. Lo teneva in vista, nella tasca dell’eskimo verde. Quella mattina, invece, lo leggeva con un gruppo di compagni, nel cortile della scuola. Lo commentavano a voce alta. In prima pagina campeggiava il titolo: “Un atto in cui gli sfruttati riconoscono una loro volontà di giustizia”. Era il 18 maggio 1972. Ventiquattro ore prima, a Milano, avevano ucciso il commissario di polizia Luigi Calabresi, da tempo al centro della più aggressiva e violenta campagna di stampa che la storia italiana ricordi.
A quel tempo, violenze e attentati di segno politico erano molto frequenti. Stragi orrende e indiscriminate, agguati contro militanti di destra o di sinistra, professionisti, politici, uomini delle istituzioni. Erano cominciati gli Anni di piombo. Una guerra civile a bassa intensità l’avrebbero definita molti anni più tardi. Ma noi studenti, romani o milanesi, non lo sapevamo. Noi pensavamo di dover scrivere qualche pagina di futuro, dal quale venivano esclusi i nostri coetanei morti ammazzati o finiti in carcere.
Era rimasto inascoltato lo scritto corsaro di Pasolini, quel suo schierarsi – di fronte agli scontri di Valle Giulia – dalla parte dei poliziotti, poveri figli di povera gente; piuttosto che al fianco degli studenti, borghesi figli di papà. Sicché, anche la morte di quel commissario attraversò le cronache e le menti, per poi finire nel dimenticatoio, all’interno della lunghissima lista dei morti che s’allungava sempre di più.
L’Italia attraversò anni terribili. Soltanto il filtro di una benevola e molto labile memoria li avrebbe ricordati come memorabili. In realtà, a starci dentro ogni cosa era maledettamente complicata. Una soprattutto: fare il proprio dovere. Per gli studenti era difficile  avere in cima ai pensieri lo studio, tali e tante erano le pressioni e le tentazioni della politica. Per gli insegnanti fronteggiare quella generazione di studenti, contestatori e ribelli, era impresa nuova e improba. Ma s’erano fatti diversi e delicatissimi anche altri mestieri: nelle istituzioni e nelle aziende. Anche se il mestiere più difficile era diventato quello di genitore.
Ogni settimana, una litania: scioperi, fabbriche e scuole occupate, cortei, attentati. E morti, vittime di un terrorismo aggressivo e sfuggente, spietato e pericoloso. Anche per questa sorta di emergenza collettiva e costante, la morte del commissario Calabresi finì nel lungo elenco delle vittime senza che le indagini sui responsabili avessero uno sbocco positivo e senza che la memoria del commissario fosse onorata a dovere.
La sua figura e la sua testimonianza si riproposero alla mia riflessione molti anni più tardi. Da giornalista seguii, dal 1988, i clamorosi sviluppi dell’inchiesta, i processi e le successive sentenze di condanna per i dirigenti di Lotta Continua (Sofri, Bompressi, Pietrostefani) e per il pentito Marino, dalle cui rivelazioni fu possibile ricostruire i fatti e accertare le responsabilità. Da studioso di storia contemporanea, lessi le pagine – manifesti, appelli, editoriali – che avevano armato di odio le mani assassine nei mesi precedenti l’agguato. Tra le firme sotto proclami e articoli ritrovai gran parte dei giornalisti e degli intellettuali più famosi, rispettati, osannati del tempo. In un documento pubblicato nel giugno 1971 (un anno prima dell’omicidio) scrissero di Calabresi “commissario torturatore”. In calce ottocento firme che, a scorrere oggi la lista, si resta increduli e sconvolti.
Infine, conobbi meglio la personalità del commissario nel corso di lunghi colloqui con un amico sacerdote che fu padre spirituale del giovane romano Luigi, studente di giurisprudenza e poi promettente funzionario trasferito a Milano. Alla scoperta di un Calabresi coraggioso servitore dello Stato s’aggiungeva quella di un uomo profondamente cristiano e testimone del Vangelo.
Questa conoscenza facilitò in me la comprensione di quale scontro si fosse consumato realmente, in quei terribili anni della nostra storia, dentro e attorno alla vicenda tragica che ebbe come protagonista il commissario. Egli era diventato il simbolo da abbattere, una sorta di pubblico capro espiatorio per quanti (erano molti) che lo vollero responsabile della morte dell’anarchico Pino Pinelli “il ferroviere”, piombato al suolo da una finestra della questura milanese il 16 dicembre 1969, quattro giorni dopo la strage di piazza Fontana.
Molti giornali parteciparono alla campagna accusatoria. Ma più di altri, Lotta Continua era una vera istigazione a delinquere, un costante invito a premere il grilletto contro il “commissario torturatore”: “Il proletariato ha già emesso la sua sentenza. Calabresi è responsabile dell’assassinio di Pinelli e Calabresi dovrà pagarla cara… L’eliminazione di un poliziotto non libererà gli sfruttati; ma è questo, sicuramente, un momento e una tappa fondamentale dell’assalto del proletariato contro lo Stato assassino”. Una volta alla sbarra, Adriano Sofri ammise: “Quegli articoli che scrivemmo erano obiettivamente orribili. Purtroppo il gusto inerte del linciaggio si era impadronito di noi”.
Nel pieno della campagna d’odio, Calabresi disse al sacerdote: “Don Ennio, io non conto nulla, loro sanno che io non ho commesso niente di male. Ma l’attacco non è tanto rivolto a me, quanto allo Stato che io rappresento”. E al giornalista Giampaolo Pansa, poche settimane prima di morire, aveva confidato: “Se non fossi cristiano, se non credessi in Dio, non so come potrei resistere… Che Paese è diventato questo?”. Gli Anni di piombo avevano rabbuiato gli animi e intristito le coscienze. Calabresi aveva 34 anni, una moglie e due bambini quando l’ammazzarono sotto casa. Non era un poliziotto come gli altri. Era speciale. Era un eroe. C’è voluto molto tempo: per individuare, processare e condannare i responsabili; perché alla memoria del commissario Calabresi, con la medaglia d’oro al merito civile, fosse restituito il pieno riscatto professionale e morale. La cerimonia si tenne al Quirinale, il 14 maggio 2004. Meglio tardi che mai.  
01/11/2005