Aldo Grasso*

Quando il tribunale fa audience

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Trasmettere i processi in televisione non aumenta la conoscenza della legge e del nostro sistema giuridico. Anzi, rischia di condizionarli

Quando il tribunale fa audience

I l processo è un “genere” (ne parlava già Aristotele) e quando appare in video ubbidisce a un doppio ordine di regole: quelle legali e quelle televisive. L’efficacia della rappresentazione e l’osservanza della giustizia dipendono appunto dal rispetto di questo duplice vincolo: cosa, per altro, non facile, basti pensare alle molte polemiche suscitate dalla serie Un giorno in pretura.
Negli anni passati, infatti, la trasmissione ha scatenato un dibattito in questo senso. Ciò che il mezzo televisivo pretendeva di offrire in meglio rispetto alle altre forme di pubblicità dei processi era la possibilità di accedere direttamente alle fonti di conoscenza che portano al giudizio. Ma c’è chi sosteneva che proprio in questa presunzione si nascondeva il meccanismo falsificatorio della televisione: la quale non aiuta i cittadini a controllare le sentenze ma alimenta sempre più procedimenti giudiziari a uso e consumo della cultura di massa, delle sue esigenze comunicative, delle sue richieste spettacolari.
Come può accadere ciò? Come può un mezzo che registra fedelmente delle immagini sortire effetti perversi? Indichiamo, per semplificare, due strade: una linguistica e una sociologica. La trasmissione di un processo in televisione non è il resoconto fedele di un processo, ma la sua spettacolarizzazione. Ciò significa che il regista sceglie e monta quelle parti che ritiene più efficaci per la riuscita del programma; inoltre l’inquadratura non è mai innocente. Se, mentre il pubblico ministero arringa, la telecamera mostra le reazioni stizzite e maldestre dell’imputato (magari secondo modalità che il regista ha appreso dai telefilm americani), aggiunge una interpretazione di senso. Un giorno in pretura, almeno all’inizio, ha soprattutto trasmesso processi di provincia che avevano per protagonisti “povericristi” implicati in storie trucide, persone probabilmente del tutto ignare di cosa significhi “finire in tv”. Chi si opponeva alla messa in onda, aveva la sensazione, sul piano sociale, che le telecamere stimolassero soprattutto la vanità di pretori, avvocati ed esibizionisti vari.
Lo studioso di mass media Neil Postman ha puntualizzato con lucidità i termini della controversia, dedicando al problema un capitolo del suo libro, How to watch Tv news, scritto con il giornalista televisivo Steve Powers. Postman ha focalizzato la sua attenzione sui due diversi significati della parola pubblico: in una prima accezione, pubblico è, ovviamente, il contrario di privato o segreto; in una seconda accezione, il pubblico è l’enorme e indifferenziata massa di persone che guarda e ascolta, la famosa audience. In ogni Paese civile un processo è pubblico nel senso che i giornalisti così come i cittadini hanno il diritto di assistervi, ma non tutti sono concordi nel ritenere che il pubblico (inteso nel secondo significato) abbia il diritto di seguire un processo in televisione. Sebbene, di fatto, un’aula di giustizia sia un luogo semipubblico, in quanto accessibile solo a chi ha la possibilità di essere presente fisicamente, è una falsa utopia credere che la televisione possa rendere il processo un evento pubblico. La telecamera, finestra sul mondo ma anche punto di vista inevitabilmente “tendenzioso”, può tutt’al più trasformare il processo in uno spettacolo pubblico. Non esiste, infatti, alcun intento pedagogico o educativo nella trasmissione televisiva di procedimenti giudiziari. In uno studio condotto dall’università di New York è stato addirittura dimostrato che gli spettatori non incrementano affatto la loro conoscenza del sistema giuridico; per ironia della sorte e del mezzo televisivo, da questa ricerca è addirittura emerso che sono i programmi di fiction, da Perry Mason a L.A. Law - Avvocati a Los Angeles, a produrre qualche risultato in questo senso. Ciò che viene mostrato in televisione ha, normalmente, il solo scopo di intrattenere lo spettatore eccitandone la curiosità (anche morbosa): in sostanza, di “fare pubblico”. Leggere su un giornale il resoconto di un processo o vederlo in televisione sono due esperienze profondamente diverse; se un uomo ritenuto innocente può sperare di ricostruire la propria vita nel caso in cui la notizia del processo che ha subito è apparsa sui giornali, è molto difficile che questo possa accadere qualora il suo caso sia finito sui teleschermi.
Il processo in televisione equivale a un ulteriore processo; vuol dire visibilità esaltata dallo schermo, gogna e berlina, punizioni estranee all’ordinamento giuridico italiano. Il principio per cui un processo può andare in onda risiede – vale la pena di ripeterlo – nella norma secondo cui l’aula di un tribunale è pubblica. Pubblico, in questo caso, vuol dire controllabile dai cittadini, aperto ai curiosi, spalancato a cronisti e fotografi. Il legislatore che così ha stabilito era animato da civilissime intenzioni: la Giustizia è un palazzo di vetro, cioè “trasparente”. Ma allora non c’era la televisione (e la stampa aveva per giunta una minore diffusione di oggi); non poteva prevedere che la pubblicità di un processo potesse anche procurare conseguenze indesiderate per la giustizia.
Un esempio recente di quanto stiamo sostenendo si rintraccia nella strategia mediatica adottata dalla difesa di Anna Maria Franzoni, la discussa mamma di Cogne, accusata dell’omicidio del proprio figlio nel 2002. La tesi della difesa è che bisogna con tutti i mezzi fronteggiare un’opinione pubblica colpevolista. Per questo ha voluto che i Franzoni si dotassero di un ufficio stampa e che la vicenda ottenesse una grande copertura mediatica. Per questo ha voluto che il “processo” finisse nei più importanti talk show. La televisione funziona per storie e per personaggi non per concetti astratti e i bravi conduttori sanno colpire il cuore degli ascoltatori. E così, vinto dall’emozione, il pubblico fa presto a dimenticare che in tribunale funzionano certe leggi e in video altre, di tipo linguistico, che nulla hanno a che vedere con il diritto. Tutto quello che la televisione fa nel nome del pubblico, anche “nel nome del popolo italiano”, lo fa sempre e soltanto in termine di audience. Così i media favoriscono l’attacco dell’emozione alla giustizia e rischiano di reintrodurre nel cuore dell’individualismo moderno metodi tribali. 

*Professore ordinario di Storia
della radio e della televisione alla
Università Cattolica di Milano,
critico televisivo del Corriere della Sera

01/10/2005