Emilio Fede

Il mio viaggio della speranza

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Possedevo una Fiat 500 di terza mano che mi ha tradito sulla Salita del Bracco... ma la fortuna non mi ha voltato le spalle. E si è presentata sotto le sembianze di un motociclista della Stradale

Il mio viaggio della speranza

Era una giornata di novembre. Una giornata uggiosa di tanti anni fa. Mi trasferivo da Roma a Torino. Avevo lasciato la redazione del Giornale d’Italia per seguire il direttore Francesco Malgeri che assumeva l’incarico alla Gazzetta del popolo, giornale di antica tradizione e credibilità. Ero un giovane cronista con pochi soldi in tasca.
Per quella grande occasione – che mi costava anche il distacco dalla famiglia, dagli amici, quindi tanta malinconia – avevo rimediato un piccolo gruzzolo, un abito rivoltato di mio fratello e una lettera di garanzia dell’allora capo della Polizia, Vicari, con la quale avrei potuto chiedere assistenza e, in via eccezionale possibilità di utilizzare a Torino la mensa del locale comando di polizia.
Possedevo una 500 c celeste di terza mano che mi ha tradito sulla Salita del Bracco, quando ormai più di metà del viaggio era compiuto. Ho pigiato troppo sull’acceleratore, il motore ha cominciato a singhiozzare, l’interno si è riempito del fumo dell’olio che bruciava, e la macchina di colpo si è bloccata. Era quasi il tramonto.
All’epoca, sul Bracco, il traffico non era certamente intenso. L’autostop, di conseguenza, piuttosto a rischio. Ma la fortuna, già allora, non mi voltava le spalle. E si è presentata sotto le sembianze di un motociclista della polizia stradale. Ha inchiodato e mi è venuto incontro per chiedermi di cosa avessi bisogno.
Ha dato un rapido sguardo al motore e ha reclinato il capo da una parte, poi dall’altra, per farmi capire che per quella quattroruote dipinta di celeste non c’era più nulla da fare.
Attendere il carro attrezzi significava trascorrere chissà quante ore mentre avanzava la notte. “Venga – mi dice l’uomo della polizia – le do un passaggio, ma deve arrangiarsi sul seggiolino posteriore”. Dove sono riuscito a sistemarmi tenendo sulle gambe la minuscola valigia di cartone.
Torino mi ha accolto così, quando era già notte e le strade semideserte.
L’uomo della polizia mi ha depositato in corso Valdocco, davanti al palazzo che ospitava assieme alla Gazzetta del popolo, anche Tutto sport e la redazione piemontese del quotidiano L’Unità.
L’accoglienza dei colleghi devo dire fu rigorosamente cortese. I colleghi si sono abituati a me, io a loro. E anche con la città, piano piano abbiamo stretto se non proprio affettuosi, onesti rapporti. Con la città sì. Con la nebbia molto meno. Mi provocava tristezza, non mi faceva dormire sonni tranquilli, mi faceva smarrire, non soltanto psicologicamente, fra le sue vie e le piazze storiche e meno storiche.
L’uomo della polizia, prima di lasciarmi con la mia valigia di cartone, mi ha indicato innanzitutto la grande caserma proprio a due passi dal giornale dove funzionava anche il ristorante mensa.
Ed è lì che il mattino dopo mi sono presentato per chiedere se potevo consumare il pasto del mezzogiorno, qualche volta anche della sera.
Detto e fatto. Da quel giorno ero uno di loro. Avevo fatto amicizia soprattutto con gli uomini della polizia stradale, che avevano lì la loro base. Che sapevano sempre raccontarmi delle tante vicende che li vedevano protagonisti anche di solidarietà. Lo sapevo perfettamente. Era stata la mia esperienza su quella strada impervia del Bracco.
Confesso, a distanza di tanti anni, che la mensa della polizia di corso Valdocco a Torino mi ha consentito di raggranellare quel tanto di risparmio che ho investito subito per acquistare a rate una fiammante 1100 tv spider firmata da Pininfarina. Dove “tv” non stava per televisione, ma per “turismo veloce”.
Lavoravo sodo al giornale e per contribuire alle spese di mantenimento della spider accettavo anche le ore straordinarie notturne.
Ma la mia vita era una zona ristretta di quella Torino. Corso Valdocco, la redazione, poco distante, la mensa della polizia, alle sue spalle una camera che una gentile anziana signorina mi affittava con notevole sconto dimenticando quello che allora per Torino era quasi un “peccato”: essere meridionale.
Non posso negare che il ricordo di quella macchina fusa sul Bracco e l’aiuto di quell’uomo della polizia stradale, abbiano, nel tempo, influenzato il mio rapporto con le forze dell’ordine. Ovviamente in chiave positiva. Allora ero un cronista giovane, di quasi bella presenza, ma alle prime armi. Col tempo, la professione mi ha regalato molto.
Il trasferimento dal giornale alla televisione, poi a Roma dove il percorso è stato lungo, ma sempre positivo. La prima rubrica sportiva “sprint”, poi lo straordinario “tv7” e le grandi inchieste. L’Africa come inviato speciale, poi la direzione del tg1, poi Milano, e il prestigio dell’informazione di Mediaset. E poi, poi, poi...
Nell’animo del giornalista, quello che accetta la professione non come status simbol ma come missione, il ruolo del cronista è il principale. Quello al quale dedichi tutta la tua esistenza. Lo era Luigi Barzini, lo era Indro Montanelli, lo era – all’epoca – Giorgio Bocca che con me ha diviso onori e oneri militando insieme nella redazione della Gazzetta del popolo. Il cronista ha il privilegio di raccontare la realtà. E la realtà, quasi sempre, supera la fantasia. Tu vivi straordinarie esperienze talvolta di gioia, talvolta drammatiche.
Mi capitava, a Torino, soprattutto, di arrivare sul posto di una rapina, o di un delitto, o di un suicidio assieme all’ambulanza o alla volante della polizia e al magistrato per le prime indagini.
Ed era sempre un poliziotto, il più disponibile, ad aiutarmi. A fornirmi, mai violando il segreto istruttorio, quegli elementi indispensabili per aprire e chiudere il racconto.
Quando ho lasciato Torino, ho rintracciato l’uomo della polizia stradale sulla cui motocicletta avevo percorso il tratto finale di quel viaggio della speranza. Era diventato nonno. Era andato in pensione. Nella sua casa, modesta, ma dignitosa, di Moncalieri mi ha offerto un caffè. Abbiamo parlato del nostro passato. Scoprendo che in comune avevamo qualcosa di indissolubile: “la sicilianità”.  
01/10/2005