Annalisa Bucchieri

Parole pubbliche

CONDIVIDI

Come è cambiata l’immagine e lo stile comunicativo delle istituzioni. In particolare del Dipartimento della pubblica sicurezza. A parlarne il massmediologo Klaus Davi

Parole pubbliche

“Comunicare” è il verbo principe della nostra epoca, assunto come imperativo categorico anche dalle istituzioni e dalle amministrazioni statali, le quali da qualche anno hanno iniziato a “raccontarsi” e a “dialogare” con i cittadini oltrepassando la vecchia modalità d’informazione impregnata di linguaggio asettico e spersonalizzato o peggio ancora burocratese e altisonante. Ne parliamo con Klaus Davi, massmediologo o – come lui stesso ama definirsi – un incrocio genetico tra consulente d’impresa e sociologo della comunicazione. Il grande pubblico lo conosce per le sue partecipazioni a diverse trasmissioni Rai e Mediaset  o in veste di curatore di rubriche trend-setter, quelle capaci di generare tendenze e mode, su L’Espresso, Il Foglio, Chi; ma gran parte del suo tempo viene assorbito dalla Klaus Davi & Co., agenzia di comunicazione d’impresa da lui fondata nel 1994 con sedi a Milano e Roma.
Tra i suoi clienti, insieme al consorzio nazionale acciaio, la Molinari e la Snaidero, compare la pubblica amministrazione: le regioni Piemonte e Lazio, ma anche la Rai. Che differenza c’è tra la strategia comunicativa di un’istituzione che eroga servizi e un’azienda privata che offre al mercato i suoi prodotti?
Non ci sono tante differenze come potrebbe sembrare. Finisce tutto nel calderone della comunicazione da cui siamo bombardati. L’atteggiamento di chi subisce messaggi commerciali o di servizio è lo stesso, simili i meccanismi di suggestione e stimolazione psicologica. Piuttosto sia aziende private che pubbliche dovrebbero fare attenzione a vendere prodotti inerenti alla loro natura. Quando si vende un servizio non coerente con la propria immagine la comunicazione che lo veicola, sebbene efficace, non viene accettata bene. In genere oggi più che l’invasività, il presentarsi e farsi conoscere il più possibile, premia la comunicazione funzionale che parte dalle esigenze di chi deve ricevere il messaggio.
Più fatti meno parole, dicevano i nostri nonni. Ora si è passati all’estremo opposto: non le sembra che la comunicazione sia diventata ipertrofica rispetto ai contenuti?
Può succedere che le aziende investano più in “forma” che in “sostanza”, però questo impegno sbilanciato non dà per forza risultati negativi, dipende dal momento storico. Ad esempio, attualmente la sicurezza è un valore prioritario e quindi non c’è bisogno che la polizia faccia pubblicità al suo “marchio”, a se stessa, piuttosto le si chiede che rafforzi la sua attività. In tutti i frangenti di crisi, d’incertezza sociale, acquista valore il contenuto e perde quota il segno. Bisogna fare più attenzione al servizio pubblico che alle parole.
La comunicazione della Polizia di Stato fino a qualche anno fa era un ambito lavorativo in fase embrionale mentre ora conta tra ufficio centrale per le relazioni esterne e addetti stampa, portavoce e personale degli Urp, quasi mille persone. Secondo lei quali sono i suoi punti di forza e gli aspetti che andrebbero sviluppati?
L’aspetto positivo più evidente è che la polizia ha rafforzato l’immagine dell’istituzione a livello locale. Il poliziotto di quartiere, le iniziative di prossimità e, in parte anche le fiction, hanno avvicinato i cittadini all’uniforme. La Polizia di Stato ha saputo unire una comunicazione istituzionale a quella territoriale, che è la comunicazione del futuro. Il punto di forza è stato il coraggio di uscire dai canoni ed entrare nell’emotività della gente. Quello che c’è di migliorabile, viceversa, è la comunicazione interna. Si ha la sensazione che questo processo di modernizzazione abbia investito la comunicazione “alta” ma sia stato recepito con ritardo dai cosiddetti “terminali”, cioè dai singoli poliziotti. Per preparare la base è necessario puntare sulla formazione, sull’insegnamento di strategie comunicative e delle lingue straniere. Il poliziotto è tra i primi a dovere imparare a gestire le tante minoranze di cui sarà composta la società multirazziale di domani.
La figura del poliziotto suscita più timore o senso di protezione nella gente?
Il cittadino è un cliente della polizia, pagando le tasse è consapevole di finanziarla e pretende un servizio. È contento di constatare la presenza delle uniformi in giro. Si sente protetto. Vede che gli agenti sono più moderni, professionali ma al tempo stesso più aperti. Se da un canto la figura del poliziotto è per sua natura “antipatica” perché ci ricorda “un dover essere”, dall’altra è pur vero che può rammentarci i nostri obblighi anche in un modo friendly, amichevole. A questa gradevolezza hanno contribuito le donne, soprattutto la seconda generazione di poliziotte, più sciolte e disinvolte. In ogni caso la sicurezza rappresenta una risorsa preziosa per la credibilità dello Stato.
A suo parere gli uomini in divisa apparendo sul piccolo schermo rischiano di “banalizzarsi” o di perdere di autorevolezza?
No, anzi penso che si siano create delle buone alleanze tra televisione e poliziotti, che hanno reso quest’ultimi più visibili e soprattutto più simpatici. Considero una buona strategia la maggiore presenza in tv di punte di eccellenza, quali dirigenti, investigatori della mobile, questori. Sono i testimonial migliori dell’istituzione: la gente deve poter guardare in volto chi la tutela. Sono convinto, d’altra parte, che anche nelle situazioni più gravi il funzionario di polizia che appare in televisione debba rassicurare l’opinione pubblica, quindi mostrare serenità, controllo della situazione, avere un’espressione meno tesa in modo da trasmettere speranza.
Quand’è che la comunicazione istituzionale si può dire vincente visto che non esiste la possibilità di calcolarne il ritorno attraverso le vendite, come si fa per i prodotti commerciali?
Ci sono due tipi di misurazione. Uno è il sondaggio che testa la notorietà, l’altro misura le oscillazioni del grado di simpatia. Il primo è un indicatore quantitativo importante, ma il secondo è qualitativo e più espressivo. È chiaro che sono ricerche che costano però sono fondamentali per capire se la campagna di rinnovamento sta funzionando nel territorio, la percezione che ha la gente delle iniziative attuate.
Chi cura l’immagine di Klaus Davi? Qualcuno le sceglie le cravatte?
Non c’è una persona che mi gestisce. Però cerco il confronto dialettico continuo con i miei collaboratori. Ed essendo un personaggio pubblico utilizzo il feedback spontaneo della gente, magari spostandomi in metropolitana e sugli autobus. 
01/08/2005