Umberto Galimberti

"Responsabilità"

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"Responsabilità"

Nella seconda metà del secolo scorso siamo passati dal principio di obbedienza dove un individuo, una volta accettata la volontà dell’autorità, non si considerava più responsabile delle proprie azioni, al principio della responsabilità secondo il quale un individuo è sollecitato a ritenersi responsabile delle proprie azioni, senza però considerare se in società complesse, come ormai sono diventate le nostre, l’assunzione di queste responsabilità è davvero possibile.
Anche nella società dell’obbedienza, come ieri la società fascista o comunista, e oggi quella ecclesiastica, quella militare, quella gerarchica della scuola e del lavoro, quella burocratica, la responsabilità non è che sia totalmente assente, ma è presente solo come responsabilità di fronte al superiore, che è altra cosa dalla responsabilità per le conseguenze delle proprie azioni. La prima si riferisce a chi dobbiamo rispondere, la seconda riguarda ciò che abbiamo o non abbiamo fatto.
Va da sé che chi si attiene alla prima forma di responsabilità, quella di fronte al superiore, non si ritiene responsabile delle proprie azioni. E questo non è solo il caso del criminale nazista, che giustifica le proprie azioni dicendo di essersi limitato a obbedire agli ordini ma, fatte le debite proporzioni, riguarda il prete che si attiene alla dottrina moral-sessuale enunciata dall’autorità ecclesiastica prescindendo dalla condizione particolare dei suoi fedeli, riguarda il giudice che si attiene alla lettera della legge senza considerare le situazioni di volta in volta diverse in cui ha luogo il reato, riguarda il professore che si attiene ai programmi ministeriali senza tener conto del diverso livello di preparazione, l’impiegato che si attiene alle norme stabilite dall’organizzazione, il burocrate alle procedure. Tutti costoro non si considerano responsabili delle proprie azioni, ma limitano l’ambito della loro responsabilità all’autorità che prescrive le azioni, collocandosi in una zona di neutralità per non dire d’irresponsabilità etica.
Se tutto ciò poteva funzionare nelle società autoritarie o nelle società semplici, funziona molto meno nelle società libere e per giunta complesse, a meno di non ipotizzare che la legge sia in grado di prevedere e coprire con i suoi dispositivi tutti gli snodi della complessità. Siccome ciò non è possibile, quanti si attengono alla sola responsabilità di fronte all’autorità, sono persone che, detto chiaro e tondo, non vogliono assumersi delle responsabilità. Sono quindi immorali.
Immorali, certo, ma – e qui il problema si complica – rispetto a quale etica? Nella nostra cultura abbiamo conosciuto fondamentalmente l’etica dell’intenzione che si limita a considerare la corretta coscienza e il buon proponimento. Per cui anche se le mie azioni hanno conseguenze disastrose, se non ne avevo coscienza o intenzione, non ho fatto nulla che mi sia moralmente imputabile. Come capitò un giorno a coloro che hanno messo in croce Gesù e che da lui sono stati perdonati: “perché non sanno quello che fanno”. È evidente che in un mondo complesso e tecnologizzato come il nostro, una morale di questo genere è improponibile, perché gli effetti sarebbero catastrofici e in molti casi addirittura irreversibili.
All’inizio del secolo scorso Max Weber formulò l’etica della responsabilità, recentemente riproposta da Hans Jonas ne Il principio di responsabilità. Secondo Weber chi agisce non può ritenersi responsabile solo delle sue intenzioni ma anche delle conseguenze. Sennonché, subito dopo aggiunge: “fin dove le conseguenze sono prevedibili”.
Questa aggiunta ci riporta punto e a capo, perché è proprio della scienza e della tecnica avviare ricerche e azioni i cui esiti finali non sono prevedibili. E di fronte all’imprevedibilità non c’è responsabilità che tenga. Lo scenario dell’imprevedibile, dischiuso dalla scienza e dalla tecnica, non è infatti imputabile, come nell’antichità, a un difetto di conoscenza, ma a un eccesso del nostro potere di fare enormemente maggiore rispetto al nostro potere di prevedere, e quindi di valutare e giudicare. Il problema della responsabilità chiede allora un ampliamento della nostra coscienza che deve farsi carico di problemi un tempo inimmaginabili.
01/07/2005