Sergio Paoli
Scorze di mela
Filavamo sparati sulla Lenox Avenue, Manhattan, quartiere di Harlem. Sulle nostre teste un cielo color del piombo ci vomitava addosso conati di acqua puzzolente, avvelenata dallo smog.
Il mio compagno di pattuglia, Henry, guidava ad oltre cento miglia l’ora, tra il traffico, le pozzanghere e le automobili quasi ferme sulle corsie laterali.
Uomini eleganti, in luccicanti Station Wagon, percorrevano a passo di lumaca la Lenox, stimando tariffe, qualità, doti e virtù delle puttane in fila lungo il marciapiede, contribuendo, per quanto possibile, ad aumentarne il caos.
La segnalazione al 911 era parsa verosimile. Per noi un codice quattordici. Una ragazza di colore, aggredita da quattro energumeni sulla centosedicesima e trascinata in un vicoletto dietro il locale a luci rosse "Dietrich", gestito, anzi direi manovrato da quel figlio di puttana di Ashany. Gli aggressori dovevano per forza essere i suoi "ragazzi", in cerca di un diversivo per la serata. Ogni secondo perso poteva significare molto, specialmente per lei…
Henry guidava con lo sguardo fisso, proiettato oltre il parabrezza. Le sue possenti mani, piroettavano sul volante nero come due esperti ginnasti sugli attrezzi, con brevi capatine alla leva del cambio e del freno a mano.
Nessuna smorfia, nessun segno apparente di coinvolgimento e nessun’imprecazione per quel caos stradale che lo costringeva a continue frenate, sterzate improvvise e violente accelerate.
La città non sembrava minimamente interessata alle nostre furenti evoluzioni automobilistiche, rese ancor più evidenti dall’accompagnamento visivo e sonoro di lampeggiante rosso e sirena.
In sedici anni di pattuglia, il mio possente collega non aveva mai neanche graffiato la sua autovettura di servizio. Qualcosa come trentamila interventi, una decina di conflitti a fuoco e qualche centinaio di arresti. A completare il quadro, assegni famigliari smodati alla moglie separata, una esagerata predilezione per le sigarette, per la birra belga e per qualsiasi fanciulla con un rapporto lunghezza gonna-misura reggiseno non superiore a dieci. Un poliziotto come tanti insomma. Per come la vedevo io, queste doti, unite alla poca inclinazione a chiacchierare inutilmente ne facevano il mio compagno di pattuglia ideale.
Eravamo ormai nei pressi della centoventicinquesima, su un tratto di strada dritto e appiccicoso come una stecca di torrone italiano Affrontammo l’incrocio e superammo un camion fermo sul ciglio della strada. Subito dietro quel colosso telonato, vedemmo sbucare un fottuto carretto di hot dog, in un tentativo azzardato di inversione a pochi metri dal muso della nostra Ford.
Una secca imprecazione uscì tagliente e asciutta tra i denti di Henry, e io capii in quel momento che non avremmo raggiunto tanto in fretta il luogo della segnalazione.
Henry riuscì a schivare il carretto, ma la brusca manovra lo costrinse ad infilare dritto l’imboccatura di un garage sotterraneo. Le ruote della Ford si staccarono da terra ed io avvertii una sgradevole sensazione di vuoto sotto le chiappe. Aspettavo di toccare terra, chissà dove e soprattutto chissà come, quando la radio di bordo si mise a gracchiare.
Cadevo, precipitavo, mentre la radio mi sparava nell’orecchio un disturbo elettrico lacerante. Poi un botto, un’esplosione, una fiammata.
Spalancai gli occhi.
Il volo era finito; o forse non c’era mai stato.
Avevo dormito? No, lo escludevo, forse avevo solo chiuso gli occhi; un attimo credo, quel tanto necessario al mio cervello per proiettarmi, con una realtà sconvolgente, quella scena. Tutto finto quindi, frutto della mia fantasia.
Quasi tutto.
In realtà la radio stava davvero scoreggiando scariche ed io ero un poliziotto, in quel momento realmente di pattuglia.
Non New York, niente Grande Mela, America, ma più semplicemente l’Italia, Trento, che in fatto di mele non è comunque seconda a nessuno. La nostra cara piccola mela. Noi, la sua scorza. Ore quattro e trentacinque del 7 maggio 2004.
Il mio collega di quella e di molte altre notti si chiamava Alfio. Stazionavamo da qualche minuto ai bordi della via Brennero, vigilanza circolazione stradale veniva chiamata. In realtà una sosta ai margini dell’unica arteria stradale degna di tale nome, percorsa, dopo le due di notte, solo da baristi di ritorno dai locali, e da piccoli trasportatori, carichi di giornali o di pane.
A volte, qualche valligiano disinformato, vagava, in cerca delle ultime piccole e costose emozioni piccanti della nottata, prima di riprendere il lavoro di tutti i giorni.
Dovevo aver chiuso gli occhi un attimo, ipnotizzato dal ticchettio delle goccioline di una pioggerellina pulita di piena primavera, che dal cielo si lasciava cadere con garbo sul nostro parabrezza.
Il frenetico cinguettio mattiniero degli uccelli, tra il folto degli ippocastani in fila ai lati della strada, si faceva sempre più intenso e frenetico. Segnale inequivocabile che l’alba, anche stavolta sarebbe puntualmente giunta.
La radio taceva, e pareva intenzionata a proseguire in quell’ostinato silenzio.
Facevo il poliziotto da oltre vent’anni, e da qualche tempo, ero riuscito a farmi assegnare alla mia provincia di origine, una tranquilla cittadina italiana di centomila abitanti, pulita, seriosa e poco incline a delinquere.
Solo quest’ultima caratteristica mi lasciava un po’ di amaro in bocca.
Il mio grado di ispettore, mi avrebbe facilmente permesso un esonero dai servizi di pattuglia. Avrei avuto diritto ad una sistemazione decorosa in qualche ufficio della Centrale, pardon Questura, ma questa prospettiva non mi allettava per nulla.
In verità un tentativo l’avevo fatto. Tre anni dietro una scrivania a leggere scartoffie, a compilar moduli e statistiche, a scontrarmi con dirigenti cocciuti, infantili e senza passione per il proprio lavoro, tra colleghi, che conservavano del poliziotto, solo il tesserino ed una divisa impolverata nell’armadio.
Non faceva per me.
Tornavo quindi in strada, tra il velato sfottò di molti colleghi, che, lungo i corridoi della Questura, peregrinavano portando a spasso fascicoli e fotocopie come lattanti da proteggere.
Io ero l’esaltato, uno con la vocazione di salvare il mondo dal male, contro la disonestà dilagante, agghindato nella sua bella divisa, dietro lo scudo di un luccicante distintivo.
Ma in fondo dei commenti di certi colleghi me ne fottevo. Prediligevo l’ammirazione, a volte la stima, che a volte suscitavo in qualche poliziotto più giovane, che trovava affascinante, o almeno curiosa, la mia ancora spontanea predilezione per il servizio in strada.
Ancora, ad ogni chiamata radio, provavo, come vent’anni prima, quella sensazione di coinvolgimento che mi isolava da tutto il resto del mondo.
Tutti i miei sensi si acuivano, la mia mente svolgeva una serie di attività automatiche, perfezionatesi nel corso degli anni, allo scopo di raggiungere un luogo, una persona o una situazione dove la mia, la nostra presenza era necessaria o comunque auspicabile.
Nel contempo cercavo di immaginare, attingendo dal serbatoio dei ricordi, le situazioni in cui ci saremmo potuti trovare, tanto per arrivare con un minimo di preparazione, almeno mentale.
Erano pochi i reparti della Polizia di Stato che potevano vantare un organico selezionato o particolarmente portato per un certo settore. Molto spesso, necessità improvvise, conoscenze o casualità, assegnavano uomini e donne, assolutamente a casaccio, all’interno delle varie e peculiari attività di questa Amministrazione. Poi sopravveniva l’adeguamento.
Anche per noi della Volante, la regola non cambiava. L’unica differenza si rivelava col tempo, quando affiorava, in molti, quell’incomprensibile testardaggine a non voler lasciare strada e divisa, per infilarsi in uffici e reparti più tranquilli in attesa della pensione.
All’inizio, pensavo che questa smania fosse dovuta ad una sorta di virus, un contagio che si perfezionava dopo un prolungato contatto con le pantere, che proliferava all’esposizione della frequente esposizione alla luce azzurra intermittente. E ancora non ho cestinato del tutto questa teoria.
Mi affascinava quel non arrivare quasi mai di nascosto, camuffato, ma di annunciarmi da lontano, sirene e sciabolate di luce azzurra, in divisa, con mostrine, bottoni dorati e scarpe scomode e rumorose.
Di quest’ultimo particolare avrei fatto volentieri a meno, certo dell’appoggio, e non parlo di quello fisico, dei miei piedi. Ogni norma igienica, sanitaria, ergonomica e visiva, veniva infranta da questa sorta di calzature in vacchetta con tacco in gomma e suola in cartone simil-cuoio. L’idea che fosse un tipo di handicap imposto dall’alto, architettato per dare un piccolo vantaggio a scippatori e borsaioli, che prediligevano invece indossare comode Nike o Adidas, mi ha accompagnato per molto tempo. Ma questa è un’altra storia.
Quando arrivavi in un posto, dicevo, spesso c’era chi ti veniva incontro fiducioso.
Non sempre a dire il vero, curiosamente capitava a volte che alcuni cercassero di allontanarsi il più velocemente possibile (vedi scarpe ginniche).
Nello sguardo di chi ti aspettava comunque, perché a volte le parole stentavano ad arrivare, potevi cogliere la riconoscenza per non aver fatto poi così tardi a toglierlo da una scomoda e dolorosa situazione.
Ogni tanto le cose non funzionavano, e allora alla rabbia per essere arrivato troppo tardi, si aggiungeva l’amarezza dell’impotenza. Quella provata davanti ad un negozio desolatamente svaligiato, ad un cassiere di banca balbettante e sudaticcio, ad una ragazza in lacrime o ad una vecchia tristemente rassegnata. Il perché del fallimento diventava, tra di noi, oggetto di discussione dei giorni a seguire, nei piccoli bar dietro la Questura, dove il fumo di troppe sigarette non riusciva comunque a nascondere il fastidio di una sconfitta.
Noi eravamo così, i poliziotti del 113, un po’ trasandati davanti all’eleganza impettita della Stradale, improvvisati e a volte impacciati davanti ad un computer, se accostati agli specialisti della Polizia delle Telecomunicazioni, facce comuni e sempliciotte se confrontate a quelle dei duri della mobile, relegati a trattare spesso con la fascia povera o piccolo criminale della popolazione e per questo elegantemente snobbati dagli investigatori delle Digos.
Via Brennero, quella notte, era ancor più deserta del solito, così, con lo sguardo perso alla fila di lampioni ancora accesi mi lasciavo trasportare dai ricordi, di quando, agente di prima nomina, arrivai alla Questura di Milano, con nessuna esperienza e pochi vestiti in valigia, tutti fuori moda.
Anni intensi, vissuti di fretta, ma pregni di storie e di preziosi insegnamenti. Poi, finalmente, l’assegnazione vicino casa, non senza qualche rimpianto ma con un guardaroba decisamente più adeguato.
Due mondi diversi, quasi opposti, ma con storie ed attori tanto simili da poter essere perfino confusi.
Mi tornava alla mente Amedeo, enorme assistente della Volante nel 90. Quella volta che, con me alla guida, raggiungemmo, e già questo aveva del miracoloso, una lussuosa Mercedes dopo un inseguimento di dieci minuti, e credetemi, dieci minuti di inseguimento in città sono davvero lunghi. Il rampollo alla guida, con aria di sfida, porgendogli la patente sbottò: "Tenga, che se la vuole mangiare adesso?"
Amedeo, senza distogliere gli occhi dal ragazzo, presa la patente, la ripiegò con cura e, senza tante smorfie se la ficcò in bocca. Dopo due masticate la inghiottì, davanti agli occhi esterrefatti del giovane. "La sua patente è trattenuta, se la può venire a riprendere domattina. Non troppo presto, mi raccomando."
E Donato, che per spuntino, verso le dieci del mattino, si prendeva un pollo arrosto intero, con mezzo chilo di patatine fritte, mangiandosi il tutto in macchina tra un intervento e l’altro, senza bere una goccia d’acqua.
Federico, che alla scuola di Polizia abbatté una fila intiera di pennoni con tanto di bandiere, durante una prova di guida veloce, e noi allievi sul bordo del piazzale ad applaudire come allo stadio.
Veronica, ambigua e inquietante ispettrice dai capelli rossi, che andammo a liberare dalle sue stesse manette alle tre del mattino nel suo appartamento. Promisi allora eterno silenzio sull’abbigliamento in cui la trovammo e sull’identità del suo aitante compagno. Ancora oggi mantengo la promessa.
Il ronzio della radio, che ogni volta anticipava una qualsiasi comunicazione mi colse di sorpresa.
- Volante uno da Centrale.-
Cazzo, eravamo noi la volante uno.
- Avanti, via Brennero.-
- Volante uno, portati subito in via Prato, nel vicolo dietro l’enoteca "il calice", ci segnalano quattro uomini che hanno trascinato in un androne una ragazza.-
Voltai lo sguardo alla mia sinistra, e per un attimo temetti di vedere, alla guida, Henry.
La sontuosa sagoma di Alfio con la sua immancabile sigaretta tra le labbra mi rassicurò.
Guardai fuori. Niente prostitute sul marciapiede, niente traffico caotico, nessun carretto di hot dog.
Eravamo sicuramente nella nostra cara piccola mela.
- Ricevuto, ci portiamo.-
risposi mentre mi assestavo sul sedile.
Avvertii subito quel famigliare formicolio alle tempie, mentre un brivido mi percorreva lento la spina dorsale per tutta la lunghezza.
Accesi il lampeggiante.
Azzurro.
Bene.
Nello stesso momento Alfio, ingranando la prima, gettò il mozzicone.
Quindici secondi dopo sfrecciavamo su via Petrarca con tutti gli effetti scenici del caso in massima attività.
Alle nostre spalle, timidamente, l’alba ci sospingeva, quasi incoraggiandoci, mentre mentalmente focalizzavo le strade, i palazzi, i vicoli di via Prato.
Squarciammo la notte tranquilla dei trentini, volando letteralmente attraverso Piazza Venezia. Alcuni piccioni insonnoliti si alzarono in volo, stizziti, a pochi centimetri dal muso della nostra piccola e pesante Fiat Marea.
Girammo attorno al "lavaman del sindaco", una brutta fontana circolare, quando un camion della nettezza urbana, sulla nostra destra, decise proprio in quel momento di ripartire. Subito dietro, un motocarro con tanto di verandina, carico di wurstel, iniziava una inversione di marcia. Ce lo trovammo praticamente di fronte, a non più di dieci metri.
Alfio, insolitamente, ruppe il silenzio, emettendo uno strano suono gutturale.
Sterzò a sinistra, accennò un colpo di freno a mano, poi diede gas tentando di raddrizzare la nostra automobile che però era ormai sfuggita al suo controllo.
Vidi avvicinarsi troppo velocemente il palazzo di giustizia, poi il flash di un semaforo lampeggiante. Le gomme gemevano nonostante la strada fosse bagnata.
Se tutto fosse andato come pareva ormai evidente, quello sarebbe stato il primo incidente stradale di Alfio, mentre aspettavo un botto, un rumore di vetri, di lamiere.
Imboccammo millimetricamente lo scivolo di accesso al parcheggio sotterraneo, l’autovettura spiccò il volo e io provai una sgradevole sensazione di vuoto sotto le chiappe.
Aspettavo di toccare terra, chissà dove e soprattutto chissà come, quando la radio di bordo si mise a gracchiare.
Cadevo, cadevo mentre la radio mi sparava nell’orecchio un disturbo elettrico lacerante…
Il mio compagno di pattuglia, Henry, guidava ad oltre cento miglia l’ora, tra il traffico, le pozzanghere e le automobili quasi ferme sulle corsie laterali.
Uomini eleganti, in luccicanti Station Wagon, percorrevano a passo di lumaca la Lenox, stimando tariffe, qualità, doti e virtù delle puttane in fila lungo il marciapiede, contribuendo, per quanto possibile, ad aumentarne il caos.
La segnalazione al 911 era parsa verosimile. Per noi un codice quattordici. Una ragazza di colore, aggredita da quattro energumeni sulla centosedicesima e trascinata in un vicoletto dietro il locale a luci rosse "Dietrich", gestito, anzi direi manovrato da quel figlio di puttana di Ashany. Gli aggressori dovevano per forza essere i suoi "ragazzi", in cerca di un diversivo per la serata. Ogni secondo perso poteva significare molto, specialmente per lei…
Henry guidava con lo sguardo fisso, proiettato oltre il parabrezza. Le sue possenti mani, piroettavano sul volante nero come due esperti ginnasti sugli attrezzi, con brevi capatine alla leva del cambio e del freno a mano.
Nessuna smorfia, nessun segno apparente di coinvolgimento e nessun’imprecazione per quel caos stradale che lo costringeva a continue frenate, sterzate improvvise e violente accelerate.
La città non sembrava minimamente interessata alle nostre furenti evoluzioni automobilistiche, rese ancor più evidenti dall’accompagnamento visivo e sonoro di lampeggiante rosso e sirena.
In sedici anni di pattuglia, il mio possente collega non aveva mai neanche graffiato la sua autovettura di servizio. Qualcosa come trentamila interventi, una decina di conflitti a fuoco e qualche centinaio di arresti. A completare il quadro, assegni famigliari smodati alla moglie separata, una esagerata predilezione per le sigarette, per la birra belga e per qualsiasi fanciulla con un rapporto lunghezza gonna-misura reggiseno non superiore a dieci. Un poliziotto come tanti insomma. Per come la vedevo io, queste doti, unite alla poca inclinazione a chiacchierare inutilmente ne facevano il mio compagno di pattuglia ideale.
Eravamo ormai nei pressi della centoventicinquesima, su un tratto di strada dritto e appiccicoso come una stecca di torrone italiano Affrontammo l’incrocio e superammo un camion fermo sul ciglio della strada. Subito dietro quel colosso telonato, vedemmo sbucare un fottuto carretto di hot dog, in un tentativo azzardato di inversione a pochi metri dal muso della nostra Ford.
Una secca imprecazione uscì tagliente e asciutta tra i denti di Henry, e io capii in quel momento che non avremmo raggiunto tanto in fretta il luogo della segnalazione.
Henry riuscì a schivare il carretto, ma la brusca manovra lo costrinse ad infilare dritto l’imboccatura di un garage sotterraneo. Le ruote della Ford si staccarono da terra ed io avvertii una sgradevole sensazione di vuoto sotto le chiappe. Aspettavo di toccare terra, chissà dove e soprattutto chissà come, quando la radio di bordo si mise a gracchiare.
Cadevo, precipitavo, mentre la radio mi sparava nell’orecchio un disturbo elettrico lacerante. Poi un botto, un’esplosione, una fiammata.
Spalancai gli occhi.
Il volo era finito; o forse non c’era mai stato.
Avevo dormito? No, lo escludevo, forse avevo solo chiuso gli occhi; un attimo credo, quel tanto necessario al mio cervello per proiettarmi, con una realtà sconvolgente, quella scena. Tutto finto quindi, frutto della mia fantasia.
Quasi tutto.
In realtà la radio stava davvero scoreggiando scariche ed io ero un poliziotto, in quel momento realmente di pattuglia.
Non New York, niente Grande Mela, America, ma più semplicemente l’Italia, Trento, che in fatto di mele non è comunque seconda a nessuno. La nostra cara piccola mela. Noi, la sua scorza. Ore quattro e trentacinque del 7 maggio 2004.
Il mio collega di quella e di molte altre notti si chiamava Alfio. Stazionavamo da qualche minuto ai bordi della via Brennero, vigilanza circolazione stradale veniva chiamata. In realtà una sosta ai margini dell’unica arteria stradale degna di tale nome, percorsa, dopo le due di notte, solo da baristi di ritorno dai locali, e da piccoli trasportatori, carichi di giornali o di pane.
A volte, qualche valligiano disinformato, vagava, in cerca delle ultime piccole e costose emozioni piccanti della nottata, prima di riprendere il lavoro di tutti i giorni.
Dovevo aver chiuso gli occhi un attimo, ipnotizzato dal ticchettio delle goccioline di una pioggerellina pulita di piena primavera, che dal cielo si lasciava cadere con garbo sul nostro parabrezza.
Il frenetico cinguettio mattiniero degli uccelli, tra il folto degli ippocastani in fila ai lati della strada, si faceva sempre più intenso e frenetico. Segnale inequivocabile che l’alba, anche stavolta sarebbe puntualmente giunta.
La radio taceva, e pareva intenzionata a proseguire in quell’ostinato silenzio.
Facevo il poliziotto da oltre vent’anni, e da qualche tempo, ero riuscito a farmi assegnare alla mia provincia di origine, una tranquilla cittadina italiana di centomila abitanti, pulita, seriosa e poco incline a delinquere.
Solo quest’ultima caratteristica mi lasciava un po’ di amaro in bocca.
Il mio grado di ispettore, mi avrebbe facilmente permesso un esonero dai servizi di pattuglia. Avrei avuto diritto ad una sistemazione decorosa in qualche ufficio della Centrale, pardon Questura, ma questa prospettiva non mi allettava per nulla.
In verità un tentativo l’avevo fatto. Tre anni dietro una scrivania a leggere scartoffie, a compilar moduli e statistiche, a scontrarmi con dirigenti cocciuti, infantili e senza passione per il proprio lavoro, tra colleghi, che conservavano del poliziotto, solo il tesserino ed una divisa impolverata nell’armadio.
Non faceva per me.
Tornavo quindi in strada, tra il velato sfottò di molti colleghi, che, lungo i corridoi della Questura, peregrinavano portando a spasso fascicoli e fotocopie come lattanti da proteggere.
Io ero l’esaltato, uno con la vocazione di salvare il mondo dal male, contro la disonestà dilagante, agghindato nella sua bella divisa, dietro lo scudo di un luccicante distintivo.
Ma in fondo dei commenti di certi colleghi me ne fottevo. Prediligevo l’ammirazione, a volte la stima, che a volte suscitavo in qualche poliziotto più giovane, che trovava affascinante, o almeno curiosa, la mia ancora spontanea predilezione per il servizio in strada.
Ancora, ad ogni chiamata radio, provavo, come vent’anni prima, quella sensazione di coinvolgimento che mi isolava da tutto il resto del mondo.
Tutti i miei sensi si acuivano, la mia mente svolgeva una serie di attività automatiche, perfezionatesi nel corso degli anni, allo scopo di raggiungere un luogo, una persona o una situazione dove la mia, la nostra presenza era necessaria o comunque auspicabile.
Nel contempo cercavo di immaginare, attingendo dal serbatoio dei ricordi, le situazioni in cui ci saremmo potuti trovare, tanto per arrivare con un minimo di preparazione, almeno mentale.
Erano pochi i reparti della Polizia di Stato che potevano vantare un organico selezionato o particolarmente portato per un certo settore. Molto spesso, necessità improvvise, conoscenze o casualità, assegnavano uomini e donne, assolutamente a casaccio, all’interno delle varie e peculiari attività di questa Amministrazione. Poi sopravveniva l’adeguamento.
Anche per noi della Volante, la regola non cambiava. L’unica differenza si rivelava col tempo, quando affiorava, in molti, quell’incomprensibile testardaggine a non voler lasciare strada e divisa, per infilarsi in uffici e reparti più tranquilli in attesa della pensione.
All’inizio, pensavo che questa smania fosse dovuta ad una sorta di virus, un contagio che si perfezionava dopo un prolungato contatto con le pantere, che proliferava all’esposizione della frequente esposizione alla luce azzurra intermittente. E ancora non ho cestinato del tutto questa teoria.
Mi affascinava quel non arrivare quasi mai di nascosto, camuffato, ma di annunciarmi da lontano, sirene e sciabolate di luce azzurra, in divisa, con mostrine, bottoni dorati e scarpe scomode e rumorose.
Di quest’ultimo particolare avrei fatto volentieri a meno, certo dell’appoggio, e non parlo di quello fisico, dei miei piedi. Ogni norma igienica, sanitaria, ergonomica e visiva, veniva infranta da questa sorta di calzature in vacchetta con tacco in gomma e suola in cartone simil-cuoio. L’idea che fosse un tipo di handicap imposto dall’alto, architettato per dare un piccolo vantaggio a scippatori e borsaioli, che prediligevano invece indossare comode Nike o Adidas, mi ha accompagnato per molto tempo. Ma questa è un’altra storia.
Quando arrivavi in un posto, dicevo, spesso c’era chi ti veniva incontro fiducioso.
Non sempre a dire il vero, curiosamente capitava a volte che alcuni cercassero di allontanarsi il più velocemente possibile (vedi scarpe ginniche).
Nello sguardo di chi ti aspettava comunque, perché a volte le parole stentavano ad arrivare, potevi cogliere la riconoscenza per non aver fatto poi così tardi a toglierlo da una scomoda e dolorosa situazione.
Ogni tanto le cose non funzionavano, e allora alla rabbia per essere arrivato troppo tardi, si aggiungeva l’amarezza dell’impotenza. Quella provata davanti ad un negozio desolatamente svaligiato, ad un cassiere di banca balbettante e sudaticcio, ad una ragazza in lacrime o ad una vecchia tristemente rassegnata. Il perché del fallimento diventava, tra di noi, oggetto di discussione dei giorni a seguire, nei piccoli bar dietro la Questura, dove il fumo di troppe sigarette non riusciva comunque a nascondere il fastidio di una sconfitta.
Noi eravamo così, i poliziotti del 113, un po’ trasandati davanti all’eleganza impettita della Stradale, improvvisati e a volte impacciati davanti ad un computer, se accostati agli specialisti della Polizia delle Telecomunicazioni, facce comuni e sempliciotte se confrontate a quelle dei duri della mobile, relegati a trattare spesso con la fascia povera o piccolo criminale della popolazione e per questo elegantemente snobbati dagli investigatori delle Digos.
Via Brennero, quella notte, era ancor più deserta del solito, così, con lo sguardo perso alla fila di lampioni ancora accesi mi lasciavo trasportare dai ricordi, di quando, agente di prima nomina, arrivai alla Questura di Milano, con nessuna esperienza e pochi vestiti in valigia, tutti fuori moda.
Anni intensi, vissuti di fretta, ma pregni di storie e di preziosi insegnamenti. Poi, finalmente, l’assegnazione vicino casa, non senza qualche rimpianto ma con un guardaroba decisamente più adeguato.
Due mondi diversi, quasi opposti, ma con storie ed attori tanto simili da poter essere perfino confusi.
Mi tornava alla mente Amedeo, enorme assistente della Volante nel 90. Quella volta che, con me alla guida, raggiungemmo, e già questo aveva del miracoloso, una lussuosa Mercedes dopo un inseguimento di dieci minuti, e credetemi, dieci minuti di inseguimento in città sono davvero lunghi. Il rampollo alla guida, con aria di sfida, porgendogli la patente sbottò: "Tenga, che se la vuole mangiare adesso?"
Amedeo, senza distogliere gli occhi dal ragazzo, presa la patente, la ripiegò con cura e, senza tante smorfie se la ficcò in bocca. Dopo due masticate la inghiottì, davanti agli occhi esterrefatti del giovane. "La sua patente è trattenuta, se la può venire a riprendere domattina. Non troppo presto, mi raccomando."
E Donato, che per spuntino, verso le dieci del mattino, si prendeva un pollo arrosto intero, con mezzo chilo di patatine fritte, mangiandosi il tutto in macchina tra un intervento e l’altro, senza bere una goccia d’acqua.
Federico, che alla scuola di Polizia abbatté una fila intiera di pennoni con tanto di bandiere, durante una prova di guida veloce, e noi allievi sul bordo del piazzale ad applaudire come allo stadio.
Veronica, ambigua e inquietante ispettrice dai capelli rossi, che andammo a liberare dalle sue stesse manette alle tre del mattino nel suo appartamento. Promisi allora eterno silenzio sull’abbigliamento in cui la trovammo e sull’identità del suo aitante compagno. Ancora oggi mantengo la promessa.
Il ronzio della radio, che ogni volta anticipava una qualsiasi comunicazione mi colse di sorpresa.
- Volante uno da Centrale.-
Cazzo, eravamo noi la volante uno.
- Avanti, via Brennero.-
- Volante uno, portati subito in via Prato, nel vicolo dietro l’enoteca "il calice", ci segnalano quattro uomini che hanno trascinato in un androne una ragazza.-
Voltai lo sguardo alla mia sinistra, e per un attimo temetti di vedere, alla guida, Henry.
La sontuosa sagoma di Alfio con la sua immancabile sigaretta tra le labbra mi rassicurò.
Guardai fuori. Niente prostitute sul marciapiede, niente traffico caotico, nessun carretto di hot dog.
Eravamo sicuramente nella nostra cara piccola mela.
- Ricevuto, ci portiamo.-
risposi mentre mi assestavo sul sedile.
Avvertii subito quel famigliare formicolio alle tempie, mentre un brivido mi percorreva lento la spina dorsale per tutta la lunghezza.
Accesi il lampeggiante.
Azzurro.
Bene.
Nello stesso momento Alfio, ingranando la prima, gettò il mozzicone.
Quindici secondi dopo sfrecciavamo su via Petrarca con tutti gli effetti scenici del caso in massima attività.
Alle nostre spalle, timidamente, l’alba ci sospingeva, quasi incoraggiandoci, mentre mentalmente focalizzavo le strade, i palazzi, i vicoli di via Prato.
Squarciammo la notte tranquilla dei trentini, volando letteralmente attraverso Piazza Venezia. Alcuni piccioni insonnoliti si alzarono in volo, stizziti, a pochi centimetri dal muso della nostra piccola e pesante Fiat Marea.
Girammo attorno al "lavaman del sindaco", una brutta fontana circolare, quando un camion della nettezza urbana, sulla nostra destra, decise proprio in quel momento di ripartire. Subito dietro, un motocarro con tanto di verandina, carico di wurstel, iniziava una inversione di marcia. Ce lo trovammo praticamente di fronte, a non più di dieci metri.
Alfio, insolitamente, ruppe il silenzio, emettendo uno strano suono gutturale.
Sterzò a sinistra, accennò un colpo di freno a mano, poi diede gas tentando di raddrizzare la nostra automobile che però era ormai sfuggita al suo controllo.
Vidi avvicinarsi troppo velocemente il palazzo di giustizia, poi il flash di un semaforo lampeggiante. Le gomme gemevano nonostante la strada fosse bagnata.
Se tutto fosse andato come pareva ormai evidente, quello sarebbe stato il primo incidente stradale di Alfio, mentre aspettavo un botto, un rumore di vetri, di lamiere.
Imboccammo millimetricamente lo scivolo di accesso al parcheggio sotterraneo, l’autovettura spiccò il volo e io provai una sgradevole sensazione di vuoto sotto le chiappe.
Aspettavo di toccare terra, chissà dove e soprattutto chissà come, quando la radio di bordo si mise a gracchiare.
Cadevo, cadevo mentre la radio mi sparava nell’orecchio un disturbo elettrico lacerante…
01/05/2005