Michele Frisia

Nove anni

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Non so come succeda. Arriva e basta. Quando siamo bambini e guardiamo la televisione, leggiamo un fumetto e qualche volta un libro, quando lasciamo comunque libera la fantasia, in quei momenti noi sappiamo sempre da che parte stare. Noi siamo buoni. Noi siamo I buoni. Poi un giorno, quasi di colpo, ti accorgi che le cose sono cambiate. Infierisci sui più deboli. Passi la notte con una ragazza e non le telefoni mai più. Dovresti chiedere scusa ad un amico e fai finta di niente. Costruire, rinunciare. Verbi che non conosci più. Mi chiedo quando sia successo. Ma non ho tempo per le domande inutili. Vomito un’altra volta e sono pronto.
Sto dietro a una banda di serbi da sette mesi. Sette mesi di notti insonni ad ascoltare cingalesi che parlano con serbi che parlano con sloveni che parlano con italiani che non parlano l’italiano e quindi sono i più difficili da capire. Barese, sorrentino, triestino. Almeno gli stranieri sono costretti a discutere in inglese, è stata la nostra fortuna, se si può chiamare fortuna ascoltare 400 telefonate alla settimana, tutte di notte ovviamente. E i morti, annegati, asfissiati, disidratati. Numeri, gente che non conta niente nel loro paese che non conta niente. Da queste parti non sono roba buona neppure sotto elezioni. E la morte, quella che arriva quando un latitante condannato a dodici anni si gira in un bosco e ti spara con una Glock 17. Tre colpi sordi e rapidi, troppo rapidi per andare a segno. Me n’è bastato uno per mandarlo giù. Ho preso il pancreas, gridava come un ossesso ma si salverà. La pistola era sparita a un poliziotto austriaco, probabilmente aveva preso la via slovena e poi era arrivata dalle parti di Udine.
Certe volte mi fermo a guardare il mondo che si ripiega su se stesso come una minorenne dopo un aborto e quello che vedo non mi piace. Sapete, potrei anche provare a dire qualcosa di intelligente, scrivere qualche libro. Invece sono solo un poliziotto. Sono una pedina, piccola ed insignificante, non sono nemmeno laureato. Quindi tutto quello che posso fare è mandare giù merda a cucchiaiate e sorridere.
La notte promette bene, forse un piccolo sbarco sopra Ancona. Dalla procura mi avvertono che i ricognitori sono in allerta, stanno battendo le spiagge, eliminano quelle pattugliate dalle forze dell’ordine. Verso le tre contattano i turchi. Quindi il pacco è diretto verso la Germania. Non cambia, siamo noi che dobbiamo difendere i sacri confini dell’impero europeo dai barbari invasori.
La spiaggia è pronta. I camion dei turchi stanno arrivando. Noi saremo lì prima di loro. Quando metto l’ultima firma sono le nove di mattina e non ho sonno. Non dormo più, non mangio più. È arrivata la paura. Non credo che se ne andrà. Quattro arresti, ho ripreso in mano l’arma e ho avuto paura. Guidando verso la Questura ho avuto paura. E so che uscendo, varcata la porta, avrò di nuovo paura. Accendo il quadro, un piccolo colpo alla chiave e il motore parte sommesso. Respiro profondamente. Prima, freccia, frizione, dopo tre minuti l’olio è caldo. Mi fermo al semaforo, verde. Chiudo gli occhi, respiro lentamente. Una volta, due, tre. Apro gli occhi di colpo, il battito cardiaco è aumentato. Giallo, il cuore batte più forte, rosso, le ruote slittano sull’asfalto, poi riprendono aderenza, sinistra, un colpo di freno, destra. Alla fine del rettilineo supero già i centoquaranta. Alla staccata entra l’ABS, la sterzata è secca. Per otto chilometri mi mantengo al massimo della concentrazione. Quando parcheggio le mani non mi tremano, il respiro è solo un poco affannato. Ma la paura resta. Due notti. Sono riuscito a riposare, poco.
È la mia giornata libera. Ho fatto due minuti di fila e sto pagando la bolletta di conguaglio del gas; quando entra. A prima vista sembra un taglierino da ufficio, sporco di sangue. Attaccato al taglierino c’è un probabile tossicodipendente con probabili precedenti. Dalla vetrata si vede il palo sullo scooter. La mia mano destra sta scivolando verso la pistola, l’altra ha già afferrato il tesserino quando sento qualcuno parlare. Ha la voce uguale alla mia e sta dicendo cose deliranti: "E tu cosa vorresti fare con quel taglierino, ti ci pulisci il culo?". Meno di un secondo è mi è addosso. Schivo il fendente alla faccia e lo colpisco con un pugno alla gola. Quando lo ammanetto non ha ancora ricominciato a respirare. È finita, quasi. Esco di corsa dalla porta a vetri e butto per terra il palo con una spallata. Lo scooter gli finisce sopra, e poco dopo anche il mio tacco sinistro.
Non mi tremano le mani, ma ho una paura maledetta. Vorrei gridare ma non ho voce. Sorrido cordialmente e vomito.
Prendo un po’ di ferie. Inutile, rivedo le stesse immagini ovunque. Motociclisti che mi sparano. Donne che estraggono armi dalle borsette. Un incrocio, semaforo verde, lo attraverso tranquillo e un’auto mi sperona. Camion impazziti che invadono la mia corsia e si ribaltano. Resto lucido. Ma la paura continua.
Ogni giorno il tramonto si porta via un pezzo della mia realtà. Poi la tregua. Cambio indagine. Riciclaggio, bar, pizzerie. Dopo quattro mesi lavoriamo su quasi cento esercizi pubblici in tre province. Il lavoro mi tiene la testa occupata. Amplifichiamo i controlli; alimentari, fiscali, amministrativi, sicurezza sul lavoro, giusto per non destare sospetto. L’indagine è matura. Cominciano gli incubi. Sento il vuoto sotto di me e cado, mi sveglio. Cerco di colpire un uomo, i miei pugni non hanno forza, mi sveglio. Devo varcare una soglia buia, mi blocco, le gambe non rispondono, il mondo gira e mi sveglio.
Mi affidano un sospetto da pedinare. Forse è solo un prestanome in una pizzeria, forse no. Passano i giorni e l’itinerario è sempre lo stesso. Casa, lavoro, casa, lavoro, casa, night club, casa, lavoro, casa, amante. Giovedì pomeriggio. Esce prima del solito. Ho appena preso il turno, non è mai uscito così presto. Esce con la Mercedes, la Punto l’ha presa la moglie. Meglio, è più facile da seguire. Fa un percorso strano, non si capisce da che parte stia andando. Gira a sinistra. All’incrocio successivo di nuovo sinistra. Al secondo semaforo di nuovo a sinistra. Così non ci scoprirà mai. Dopo cinque minuti parcheggia e fa due volte il giro dell’isolato. Continua a guardarsi le spalle; ogni tanto, per dissimulare, fa finta di girarsi ed ammiccare a qualche ragazza che passa. Non gli riesce bene. Ci tiene in giro quaranta minuti e poi si decide di non essere seguito: si va in zona calda. Fuori città, bar di paese. Entrano ed escono solo vecchi con il bastone. Ogni tanto qualche ragazza. Ridono. Ridono sempre. Il mio uomo è parcheggiato quattro auto davanti a me. Lo vedo bene perché sono lato passeggero. Il mio compagno è già nel bar da quando siamo arrivati. Ha cinquantasette anni e veste trasandato, ma non abbastanza da farsi notare. È bravo. Un quarto d’ora e arriva il contatto. Si siede nella Mercedes. Parlano. Mi consulto via radio con il mio collega. Lui è più vecchio e ha molta più anzianità. Io sono più alto in grado. Se non siamo d’accordo è un casino. Non siamo d’accordo. Io penso di aver riconosciuto un latitante, lui dice che non è possibile. E perché mai non potrebbe essere possibile? Io non mi dimentico mai una faccia, ma non me la sento di attaccare quell’auto. Ho proprio paura. Non ce la faccio, cristo. Apro lo sportello, lo richiudo, appoggiandolo senza far rumore. La Beretta è vicino alla coscia, pronta. Avanzo lentamente, guardo ovunque, anche dove non si può vedere. Sono a dieci metri dalla macchina, quattro porte, gli imbecilli non hanno messo la sicura. Tre metri. "Vado dentro", lo dico secco, per radio. Già mi immagino il mio collega che pensa, dentro dove? Un metro. Rimetto la pistola nella fondina, respiro profondamente, tiro fuori dal cappello il mio sorriso migliore e mi siedo dietro al passeggero. Estraggo la pistola, "Alt, Polizia". Non è originale, ma è breve e facile da ricordare. Vedo qualcuno che esce di corsa dal bar.
Tutto a posto, è vestito trasandato e piuttosto incazzato, ma quando vedrà il nostro pesce lo sarà ancora di più: Di Laio Pasquale, nato a Gela (CL) il 23/7/1957, condannato nel 1995 per associazione di tipo mafioso, omicidio, occultamento di cadavere, concorso in omicidio plurimo ed altre amenità.
Io non dimentico mai una faccia. Cerco qualcosa di fico da dire ma non mi viene in mente niente. Partiamo con la solita routine, ammanettamento, perquisizione, bonifica e via di corsa verso la Questura. Sono terrorizzato. Trasferimento. Pericolo per l’incolumità del dipendente. Si torna a casa. Questa volta ho fatto il colpo grosso. Mi potrebbe anche arrivare una promozione per merito straordinario. Ma penso di no.
Ieri pomeriggio sono entrato in armeria, mentre cercavo una fondina nuova è entrato un ragazzo, piuttosto giovane ma sposato. Il negoziante gli ha mostrato qualche Glock. Sono riuscito ad arrivare di corsa fino all’angolo. Poi ho vomitato.
È un martedì calmo, la città è quasi vuota e i viali la sera sudano più dei passanti. Ai lati ragazze di tutti i colori attendono poco desiderose un cliente. Le ho viste arrivare sulle spiagge, le ho viste arrivare nei container, le ho viste arrivare morte.
Nove anni fa, in ottobre, mio cugino stava russando sotto un tavolo di Milano, la sera della sua laurea. Circa due ore dopo tornavo a casa barcollando, anche un po’ incazzato e il motivo era piuttosto facile da intuire. Io non mi sarei laureato, io non mi sarei sposato, io ero la testa di cazzo, io non credevo in niente, "perché non prendi esempio da tuo cugino, lui si" ed altre amenità del genere.
Ma il suono di una donna che piange non si può confondere con niente altro. Lei era bella ma non fu quello a colpirmi, fu il suo pappone circa tre minuti più tardi. Ho la brutta abitudine di non farmi gli affari miei. Mi fece male, niente punti ma molto dolore. Lui rimediò solo una mano rotta. Lei era bella anche con la faccia gonfia. Parlammo tutta la notte e alla fine le regalai tutto quello che sputò la macchinetta del Bancomat e le spiegai come rifarsi una vita e non ebbi niente in cambio perché nulla volevo.
Ma quella notte cambiò la mia vita. Proteggi l’innocenza. La decisione era presa.
Non feci mai in tempo a vendicarmi del pappone. Morì qualche mese più tardi in un incidente automobilistico. Lei scomparve nella nebbia delle vite che si intersecano e non tornò più, come è giusto che sia.
Io, nel mio piccolo, sono ancora in zona. Ora allo specchio vedo un poliziotto e mi ero dimenticato di lei. Fino a stasera. Quella ragazza vicino al chiosco ha una gonna veramente minuscola, un uomo troppo grasso le sta dando un panino, ma si premura che lo vada a mangiare da un’altra parte. Quella gonna troppo corta si porta in giro una ragazzina a cui è stato rubato qualcosa; forse è per come cammina, forse è per il modo in cui cerca di sorridere senza riuscirci, ma mi è tornata in mente quella notte di ottobre di nove anni fa e le cose stanno cambiando.
Io so perché faccio questo lavoro, io so di avere le spalle abbastanza forti da reggere le paure mie e quelle degli altri, io so che non esistono I buoni, ma so anche da che parte stare. Io mi sento di nuovo pronto.
01/05/2005