Luigi Amatiello
San Giuliano di Puglia
Al viaggio,stavolta non uno dei tanti verso qualche stadio o incontro a qualche corteo di disoccupati, mancava la solita allegria: mi guardavo intorno e oltre al silenzio mi colpiva il fatto che evitavamo di guardarci negli occhi. Ognuno di noi aveva lo sguardo attaccato al finestrino del ducato che da Bari ci stava portando a San Giuliano di Puglia. In fretta.
Avevamo preparato le due squadre, venti di noi, in meno di un quarto d’ora,molti avevano le valigie pronte per tornare a casa,l’indomani era il primo novembre: giorno festivo. Caricammo sui mezzi quelle stesse valigie oltre a pale,coperte fari e stivali che l’armiere ci passava in fretta dalla finestrella dell’armeria dalla quale sentivamo bene i primi telegiornali e le notizie terribili da San Giuliano.
Partimmo in silenzio. C’erano tra noi ragazzi con figli e non osavo nemmeno cercare di capire cosa mai stessero pensando in quei momenti: stavamo andando lì dove una scossa di terremoto aveva trascinato macerie e morte in una scuola.
Il viaggio parve interminabile:ognuno aveva la testa immersa in pensieri tristi e dolorosi. Forse cercavamo di prepararci a quello che ci aspettava di vedere ma era davvero difficile solo immaginare in che contesto stavamo andando ad operare.
Ricordo il vento gelido che tagliava la faccia e gelava le parole prima ancora che uscissero dalle labbra: c’era davvero poco da dire appena arrivati al paese. La croce che ci guidò da lontano era l’unica nota di colore e calore in quel momento. Attraversammo il paese deserto e accasciato, distrutto e pendente,macerie fumavano al vento sempre più freddo e pungente. Dovemmo fare un tratto di strada a piedi prima di avvicinarci all’edificio scolastico,camminavamo svelti tagliando gruppi di persone che salivano la strada al contrario piangendo, urlando, disperando… il rumore di alcune ruspe era assordante, il lampeggio dei dispositivi luminosi di vigili,pompieri, carabinieri e polizia creava un’atmosfera spettrale.
Il mormorio aumentava ad ogni passo,la folla si apriva al nostro passaggio ronzando parole che non capivo:infilai in fretta i guanti e guardai il capo squadra in attesa di disposizioni.
Vidi la scuola.
Smisi di pensare,ascoltare, respirare:dei ragazzi erano sotto quella montagna di sassi e cemento, ferri piegati e alzati al cielo come rami di alberi spogli fuoriuscivano da cumuli di macerie e polvere, finestre piegate,banchi distrutti, cartelle,quaderni,fogli strappati come le vite di quei piccoli già tirati fuori e coperti da bianche lenzuola.
La polvere entrava ovunque:le divise si imbiancarono presto e presto la gola divenne secca e arida.
Sentivo aleggiare tutt’intorno una strana sensazione: vedevo gente al lavoro,scavare con le mani, spostare pietre grandissime con la forza del dolore e della disperazione. Sentivo urlare, gridare, piangere; vedevo gente correre e disperarsi.
Tutto sembrava un formicolio in piena attività: osservavo la donna piegata sulle ginocchia intenta a pregare ed a piangere silenziosamente, l’uomo disperato che camminava nervosamente davanti al cordone predisposto dai colleghi per far meglio lavorare i soccorritori, ascoltavo il gruppetto di donne che faceva l’elenco dei ragazzi dividendoli per classi di appartenenza…un gruppo di ragazzi invece distribuiva caffé caldo e parole di consolazione a due vecchietti seduti su una panchina di legno improvvisata.
Mi sentivo inutile,e non perché non stavamo facendo nulla, era una sensazione più forte e decisa della voglia che tutti avevamo portato con noi di fare, aiutare, scavare, soccorrere.
Tutto questo credo durò pochi istanti: venimmo chiamati a gruppi e organizzammo un cordone davanti alle macerie,allontanammo le persone che ostruivano il passaggio ai barellieri, creammo un passaggio per meglio far defluire le ambulanze… in pochi secondi non ebbi più il tempo e la forza di pensare.
Nemmeno al fatto che non avevo ancora avvisato casa che non sarei tornato… - chissà se pure loro hanno sentito la scossa pensavo mentre tentavo di consolare (come, con quali parole e con quanto coraggio, sinceramente non ricordo) una donna che implorava il nome della sua piccola ancora sotto le macerie.
In mano aveva un quaderno, su un foglio strappato si vedeva un disegno che rappresentava un sole sorridente.
Cercò di avvicinarsi alla scuola ed io ero lì ad impedirlo,almeno in quel momento: stavano scendendo le barelle coperte con i corpi di due ragazzi.
-- Lasciami passare, lasciatemi passare!
Mi stava prendendo a pugni e continuava ad urlare,inveire, gridare. Sentivo in me una rabbia incredibile prima di tutto per il fatto di riuscire a fare quello che mi avevano chiesto: stavo eseguendo una disposizione ma il mio cuore piangeva con quella donna e le sue lacrime erano le stesse che silenziosamente, nascoste, stavano bagnando il mio animo.
Un anziano signore, credo il padre,mi fece cenno di lasciarla a lui…mi guardò negli occhi trafiggendomi l’anima.
Poi la donna vide le barelle e improvvisamente si zittì, mi lascio d’un colpo e silenziosamente, mani giunte si avvicinò all’ambulanza…mi girai dall’altra parte,appena carpii l’espressione che si stava disegnando sul suo volto.
E il grido di dolore che sarebbe seguito.
Sono certo che urlò, ma ricordo bene di non averla sentita.
Sentivo invece il peso di mille pensieri, cercavo di immaginare quei ragazzi la mattina stessa,mentre andavano a scuola, sorridendo…
* * * * *
Rividi l’uomo che portò via quella donna il mattino seguente: eravamo stati posizionati a gruppi di due a presidiare l’accesso al paese ed evitare che qualcuno si avvicinasse alle case pericolanti.
Era troppo pericoloso considerando le condizioni di quelle abitazioni e le continue scosse di assestamento che si succedevano.
Si fermò a guardarmi poco lontano ed ebbi l’impressione, poi rivelatasi giusta, che volesse parlarmi.
Mi convinse più che con le parole con lo sguardo.
Dopo pochi minuti lo stavo accompagnando a piedi in paese,lo lasciai sull’uscio della sua casa e lo aspettai fuori.
Lo guardai mentre saliva lentamente le scale e salire al piano superiore.
Ricomparve poco pochi minuti con un’espressione serena. Aveva tra le mani una busta colorata e me la fece vedere appena fuori la porta: la calligrafia incerta di un bimbo aveva scritto :"Per il mio caro nonno".
-- Mi aveva chiesto di preparargli una zucca scavata per la festa che stavano organizzando…,mi aveva promesso una letterina e mi aveva chiesto di aprirla solo oggi. Grazie di avermi accompagnato,grazie di cuore.
Richiuse la porta a chiave;guardò le fessure come graffi nelle pareti della casa e scuotendo la testa risalì lentamente la strada.
Restai volutamente un passo indietro;preferii lasciarlo al suo dolore ed ai suoi ricordi. Lo vedevo camminare davanti a me,testa china e passo lento…e fui contento d’averlo accompagnato.
Non l’ho più rivisto.
Mai potrò dimenticare di quei giorni di violente emozioni quel volto scavato dal passato e lacerato dal dolore, quelle stanche rughe simili a quelle case distrutte;quel silenzioso, tragico pianto e quel sereno, indescrivibile,sconvolgente sguardo di ringraziamento.