Alessandro Pilotto

Gigin

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Il maggio romano è stranamente tiepido, il cielo terso, la luce nitida.  Persino Caravaggio  a  S. Luigi dei Francesi appare riconciliato   con l’aria ed i profumi della città, illustra una guida turistica.

Oggi però il calore è stato quasi insopportabile. Sono ore che stazioniamo in piazza delle 5 Scole, vicino alla Sinagoga, come riserva, in un punto in cui il sole ci tormenta, cercare l’ombra nemmeno a parlarne. Ordini.

Il nostro lavoro è curioso. A volte sembra di interpretare una vicenda di pupi siciliani che si muovono  all’unisono,  senza dubbi, e quando   si arrestano lo  fanno tutti insieme   cascando giù in un torpore senz’anima. Gli occhi sbarrati in attesa di mangiafuoco-brigadiere Godot.
 Un’attesa priva di identità. Sembra; ma sono questi i momenti in cui puoi osservare la realtà che ti circonda, apparentemente autonoma, impegnarsi con la frenesia delle arnie.
 O semplicemente pensare.
 
Sudo. Rivoli mi bagnano  il volto.
 Qualche goccia giunge alle labbra; è salata o forse aspra come le more della campagna valbormidese, quella non coltivata, che sa di terra amara e di povertà.
E’ sì una collina cugina delle Langhe, ma "non digrada imponente ad occidente seguendo il cammino del sole", non è benedetta da Dio e nemmeno dagli sforzi dell’uomo. Perché non rende. Non da dignità al portamunè  .
 E’ per questo che è iniziata la trasformazione. Prima è arrivata la grande fabbrica, la Ferrania e poi via via tutte le altre a portare il benessere e il sottile piacere della colonizzazione di un mondo, per inseguire il mito dell’inurbamento collettivo.
La terra invece è stata ripudiata: una femmina poco fertile e per giunta difficile da conquistare, da ingravidare. Troppi sforzi, troppi sacrifici.

Solo chi era predisposto poteva resistere, chi era nato contadino o curvo come Gigin; Lui sì, la natura l’aveva adattato all’ambiente:  così piegato da non riuscire a vedere le Alpi sullo sfondo delle poche giornate terse primaverili, ma vicino alla terra tanto da poterla sfiorare con le mani, senza chinarsi. E sentirne  gli odori. Ed ascoltarne le voci. "La si calpesta con indifferenza e non ci si ricorda più del Suo essere madre, sorella, sposa. Parliamo una lingua che non sa tradurre in parole l’essenza della vita ", diceva Gigin, in un dialetto incomprensibile ai più, incurvato e scricchiolante, come le sue ossa.  

Si diceva che la sua strana posizione fosse il frutto di un  voto fatto a vent’anni alla "Madonna del Deserto" che particolarmente gratificata da quella devozione così genuina, gli avesse consentito di rimanere così per il resto dei suoi giorni e delle sue notti. Forse per questo motivo, quando giungeva in paese era quasi sempre preceduto da un Noi vogliam Dio lento e malinconico, quasi un belato struggente che si mutava, sempre sulla stessa aria, in un’historia pedagogica in cui qualche giovane fanciulla abbandonata in povertà e senza più onore, si toglieva la vita gettandosi in un pozzo, monito per tutte le vergini dei dintorni e per tutte le case in cui l’acquedotto non era ancora arrivato.
 La cartolina precetto sì, quella giungeva sempre puntuale, da quasi  un secolo, con  marziale efficienza.

Oggi è giornata di celebrazioni. Il divorzio compie  tre anni. Così giovane ha cambiato la vita a molti. Anche a mia sorella. Soprattutto ai miei genitori chiusi in un dolore che non li fa più uscire, neppure per andare a ballare, manc ch’i fussa   Casadei o Castellina Pasi.
 Lo vivono come un lutto. Peggio, perché nella morte c’è qualcosa di onorevole, una condivisione con l’intera umanità e poi il lutto, lo si porta solo un anno.
 Ma è  lo scotto che si deve pagare alla civilizzazione forzata, alla laicità dell’esistenza.
 Chi era abituato da mille anni a ritmare la propria vita con i Vespri, non riusciva ad accettarlo con disinvolto modernismo.

Intanto, adesso  si presentano altri referendum  pensando di risolvere ogni cosa col rito della democrazia collettiva. Con l’illusione che una decisione plebiscitaria sia comunque la più corretta.
 Soluzioni facili per problemi difficili.  Onestamente  sono un po’ scettico.

Ci sono tantissimi manifestanti, più di quelli che hanno annunciato i giornali e la televisione nei giorni scorsi, in uno strano balletto di cifre, forse per non spaventarci.  Ora tutto sembra calmo, anche se ci sono stati scontri durante  la giornata. Ma cerco di non pensarci. Anche se non abbiamo partecipato direttamente, la nebbia dei  lacrimogeni, trasportata  per la città dalla zona di largo Argentina, ci sta lambendo, e le lacrime agli occhi ci fanno l’aria malinconica.
  Ci sono stati incidenti  a p.zza Navona   ma anche a p.zza Madama  persino con  dei parlamentari.
 -Stemo attenti, quelli lì nun scherzano, una mazzata sbagliata e te ritrovi a Pantelleria, ce semo intesi?- ci istruisce serio il brigadiere.
 Ci sono anche dei giornalisti tra i feriti, -ma, ahò se ra saranno certamente cercata- continua con un pizzico di soddisfazione.

  All’angolo di via de’ Cenci, staziona un gruppetto con bandiere e striscioni, discutono animatamente. Ci lanciano occhiate significative, ogni tanto qualche parola. A me giungono solo frasi consumate, ma penso che non riuscirei ugualmente a comprendere il loro modo di intendere la vita: se pensano alla falce non  pensano soltanto al grano e se pensano al grano pensano solo ai soldi.
La schiena ora mi duole, il cinturone con attaccata tutta quella roba pesa maledettamente e, con studiata indifferenza, mi piego in avanti per alleggerire il dolore sino a sfiorare quasi il ciottolato.

Gigin in quella posizione riusciva a lavorare. Continuamente. Del resto sapeva fare solo quello, era stato creato apposta. E quando si esibiva in spericolate acrobazie per salire sulle fasce di improbabili vigneti,  ricordava un antico faraone che contemplava perplesso la sua tomba.  Ma  era l’unico modo che aveva per vedere il mondo dall’alto ed il volto di qualcuno che non fosse supino. Come  alle veglie funebri a cui si recava sempre con un grosso rosario d’ulivo, per verificare se la sua fantasia avesse intuito dalle scarpe, dalle calze o dai pantaloni, la lunghezza del naso, l’acconciatura dei capelli o la serenità di un volto anch’esso ormai  disteso.

  I bambini, i soli a poterlo guardare negli occhi,  non gli si avvicinavano, non aveva un buon odore, -gli gnomi non hanno mai un buon odore-, si diceva con il gusto e la crudeltà dell’infanzia; ma non era vero perché una volta mi era accaduto  di scontrarlo mentre correvo via dagli indiani, incespicando nel cinturone di cartapesta. Stupore, era stato stupore e non paura la prima reazione e poi mi era sembrato naturale avvicinare la mano e seguire quei solchi che sicuramente le lacrime avevano scavato nel suo viso e cercare di divinare  la lunghezza della sua vita o forse della mia. Lui aveva sorriso con i denti di resina che navigavano tra le gengive. Anch’io, col vuoto lasciato dagli incisivi da latte.
 Da allora fummo legati da un reciproco complice affetto.

E una strana magia effettivamente lo circondava; riusciva a riconoscere le persone, anche da lontano, anche se non parlavano, anche se erano alle sue spalle. Forse dal ritmo dei passi, o dai calzari, l’unica indicazione visibile ed immediata dello scorrere dell’età che Lui possedesse, perché i volti della sua memoria non erano corrosi dal tempo. Però aveva qualche difficoltà con i Carabinieri.

 Era una sfida, mai riuscita, cercare di avvicinarlo senza essere scoperti:
Tei Ti, al so, pulèn   e mi accarezzava il capo con le grossa dita nodose con la delicatezza che soltanto i nonni sanno offrire.

Cerco di assumere un’aria distinta mentre passa  davanti a noi, preceduta da un  intenso profumo speziato, una ragazza dal viso furbescamente dolce, capelli  corvini corti, una margherita grande ricamata che crede di celare il seno,  la gonna  forse un po’ troppo corta per  le mie abitudini.
 Quando sorprendo il mio sguardo ipnotizzato sulle sue anche arrossisco in silenzio, gli altri invece apprezzano rumorosamente, cercando, tra risolini e volgarità appena sussurrate,  un modo per esorcizzare la deità femminile.
Lei lancia uno sguardo beffardo, quasi a compatirci, ma poi ci ripensa e il volto le si distende in un sorriso. Anche il passo. 

 Gigin salutava sempre, tutti. Portando la mano alla tesa del vecchio cappello di paglia. Ma le dita erano deformate dall’artrite e così il saluto risultava  stranamente ironico. Anche per la mancanza delle prime falangi del medio e dell’anulare della mano destra, ghermite da un’insolente sega a bindello.
  La domenica lo riconoscevi dal  vecchio Borsalino acquistato alla fiera di Acqui, l’unico viaggio  esotico di cui manteneva un vivo ricordo e gelosamente, l’immagine di un volto e di un incontro naturalmente peccaminoso. Segreto rivelato soltanto a Don Beppe  e che si materializzava, qualche volta, in un nome, tra il fumo ed i bicchieri del barbera acidulo del bar sport. Luisa detta Lisa.
 Un diminutivo che si adattava meglio alla sua professione, certamente usurante.
Poi, a sera, ripartiva verso casa  col volto a terra,  osservando, in una prospettiva che non includeva le stelle,  la calma dei suoi passi sulla strada, stranamente slanciati. Un movimento goffo ma ingegnosamente articolato che inarcava l’anca e faceva avanzare verso l’alto a superare il busto, la coscia; la gamba ricadeva lenta e rigida, ma composta e quasi elegante.

  Ed io, in quel meraviglioso Natale del meccano, avevo provato a costruirne uno di Gigin, un po’ più piccolo, però. I pezzi erano quelli che erano. Ma non era venuto bene o forse sì, perché mia madre, accarezzandomi la nuca con dolcezza, diceva ai parenti, distratti dai ravioli al coniglio, che anch’io avevo la mia predisposizione.
 Il buon Dio a te ti ha fatto operaio specializzato . Avrei potuto, un giorno terribile, senza dubbio aspirare a capo turno. O persino alla direzione del reparto. Ma questo era un segreto che poteva essere discusso solo alla sera tra le spesse lenzuola di cotone del talamo, tra i sospiri del "fa’ cianen cu fanciot sent " . Agli altri non bisognava dirlo, poteva portare male.
 Mio padre approvava con orgoglio ascoltando l’aradio.

Ma la mia vita era stata un’altra.
Colpa di Andrea, quello che mi metteva in testa idee straniere e che poi sarebbe finito nella macelleria del padre e che mi parlava della vita on the road  o di qualche altro accidente  di cui ho perso la memoria.
 In verità un po’ hippy mi sono sentito quando siamo partiti zaino e pollice pronto verso  mete sconosciute e siamo tornati dopo due giorni per quella mia fastidiosa allergia da sacco a pelo.

 O più semplicemente colpa di Giorgiana, con i sui capelli fulvi e quell’aria così sicura.   Ti guardava e arrossivi. Istantaneamente.
 Lei, circondata dall’esotismo della città, era un messia inatteso delle nostre estati,  venuta a svelarci, a suo dire, le arcane magie dell’esistenza, sulla note di Baez e Dylan.
 La seguivo rapito da quel rimmel marcato e dalla matita troppo spessa, parlare con la sicurezza della certezza, di lotte popolari, di università tridentine e di come il proletariato si sarebbe liberato dal giogo dell’oppressione borghese. E ancora di operai immaginari, che nelle sue visioni perdevano l’odore acre del sudore, la sporcizia, le bestemmie  e persino la speranza del tredici alla schedina.
 Io, le fantasie della politica  non le ho mai capite, ma la stavo ad ascoltare ugualmente, per il piacere di sentire la sua voce o per sfiorarle un seno, distrattamente, confidando nella scusa della  casualità.
 
Secondo Lei dovevo liberarmi. Uscire dal guscio. Viaggiare. L’ho fatto nel modo più convenzionale: bicolore e valigia di cartone, con mia madre che piangeva e con mio padre che, un po’, si sentiva tradito. Ma rispettava la mia scelta, per la verità  obbligata, dopo il mancato rinvio del servizio militare.

Attraversiamo l’isola tiberina. Celermente. L’orologio  di ponte Cestio segna le 19.40, c’è una tensione palpabile nell’aria.
  ’Adda passà ’a nuttata,  mi sussurra Ciro. Dovrà finire questa stupida giornata uguale a troppe altre  dove si rischia la pelle per delle idee.
Delle idee degli altri,  come diceva Gigin;  ma non ho il tempo della memoria, perché ci fanno sobbalzare  degli  scoppi secchi, innaturali,  che provengono, sembra, da ponte Garibaldi e coprono persino il rumore degli slogan. Istintivamente ci abbassiamo.
 Un motorino, penso, ma Gianni più esperto di me è sicuro che siano  colpi di pistola. Sembra che ci sia un corpo a terra, due.

Da lontano qualcuno urla  "Giorgiana…"
ma certamente non è la mia Giorgiana che,  da un paio d’anni negli Stati Uniti per quel master sulla produttività del personale e gestione degli esuberi,  si era banalmente  sposata con Frank,  guru della modern architecture , allievo di Mies van der Rohe.

Però il plesso solare mi si irrigidisce lo stesso. Ed una strana ansia mi cresce dentro.

   Poi giungono le disposizioni: sgombrare, bisogna sgomberare la piazza. Piazza Belli. Poeta dialettale.
 Inconsapevolmente senza clamore parte una  carica. E’ la prima della giornata. Almeno per noi. Ma è veloce, rabbiosa. Improvvisa. Non si sa bene chi abbia dato l’ordine e non c’è il tempo di capirlo,  né di riflettere. Né di rimanere isolati. Guardo solo il caposquadra e lo seguo senza ragionare in mezzo alla folla in tumulto. Tra le urla, la paura, il gusto acre dei lacrimogeni che ti trasformano l’umore e ti possiedono senza pudore  nell’ intimo, dove il bruciore è insopportabile.
Stringo ancora più forte il manganello e continuo la mia  corsa cieca.
Forse colpisco qualcuno, non so, ma sento occhi, gambe, braccia, mani  lottare, implorare, imprecare. Odio, angoscia, odore di sangue.
 E quando qualcosa centra il mio elmetto con un sordo rumore metallico, riesco soltanto a guardare a terra e ogni cosa mi appare grigia e nera.
Come la divisa, come gli stivaletti.

Chissà se adesso Gigin  mi saprebbe riconoscere.

01/05/2005