Renzo Erman
Una normale mattina balcanica (scatole e bombe a Pristina)
Sentii un sibilo breve, poi un tonfo, secco, e mi girai. Dario era appena scivolato su una lastra di ghiaccio, e io lo vidi venir giù alla mia destra, percorrere di schiena i pochi passi che su quel ripido marciapiede ci separavano, incapace d’aggrapparsi a qualsiasi appiglio, per il semplice fatto che tutt’attorno non ve n’erano. Quando mi passò a fianco tentai d’afferrarlo per il bavero della giacca, ma immediatamente mi resi conto che avrebbe tirato giù anche me, e lasciai la presa. Percorse così altri quattro o cinque metri prima di rallentare ed arrestarsi: rimase immobile per qualche secondo, disteso sulla schiena e con le braccia allargate, cercando di capire se era tutto finito o se l’aspettava qualcos’altro. Sussurrò una bestemmia che comunque nessuno attorno avrebbe potuto comprendere, e dopo un crescendo di sproloqui con il suo forte accento calabro-toscano si risollevò in piedi: scoppiammo entrambi in una risata fragorosa, irreale in quella desolata alba balcanica, incuranti di chi aveva già acceso la luce del balcone per vedere cosa stava succedendo in strada.
Riprendemmo il nostro cammino, sorreggendoci l’un l’altro e procedendo con cautela, coordinando i movimenti e piantando bene ad ogni passo i talloni nella neve fresca, limitati nei movimenti dai molti strati di vestiario indossati a protezione del freddo atroce di quei giorni.
L’inverno in Kosovo è qualcosa che non dimentichi tanto facilmente.
Eravamo arrivati a Pristina poche settimane prima, orgogliosi di far parte del primo contingente di poliziotti italiani inviato in Kosovo, al servizio delle Nazioni Unite. La portavamo bene in vista quella bandiera, sul braccio sinistro. Un distintivo rotondo bianco e blu che ci faceva sentire orgogliosi di noi stessi e del cammino personale che ci aveva condotto sin lì, ognuno con la propria storia, unica e speciale, consapevoli di vivere l’avventura della nostra vita.
Sull’altro braccio la nostra bandiera, con una striscia di nastro adesivo nero messa di traverso: Marco e gli altri di quel volo maledetto se n’erano andati da pochi giorni, le cerimonie e il funerale s’erano conclusi da poco, e noi vivevamo ancora pienamente un lutto che sarebbe rimasto per anni nel profondo di ognuno.
Eravamo dunque stati assegnati a Pristina, al comando di polizia "station 2", Dario ed io, unici italiani in un gruppo di 150 tra poliziotti provenienti un po’ da tutto il mondo, soldati inglesi e traduttori di etnia albanese. Di serbi non ce n’erano, tutti o quasi oramai relegati in poche sacche di territorio circondate dai carri armati, dalle quali in pratica nessuno poteva né entrare né uscire, sempre che ne avesse avuto voglia.
Il mio inglese era ancora traballante, e quando mi assegnarono all’impegnativo servizio delle pattuglie non feci obiezioni: la conoscenza della lingua rappresentava il potere, e io non ero nelle condizioni di potermi permettermi contestazioni. In ogni caso, era un compito che mi piaceva.
Così dunque quella mattina giungemmo un po’ ammaccati e molto infreddoliti alla "nostra" stazione di polizia, con l’oscurità che in breve avrebbe lasciato spazio ad una nebbia fitta e tremendamente umida, desiderosi solo di poterci scaldare con una tazza di caffè bollente prima di iniziare il solito briefing mattutino.
Entrammo nella sala delle riunioni e costatammo con disappunto di essere arrivati tardi: le sedie delle ultime file, solitamente il nostro regno discreto e riparato, erano già state tutte occupate. Ci sistemammo un po’ contrariati in prima linea, scambiando qualche battuta con gli altri colleghi e attendendo l’arrivo dello "shift leader", il responsabile del turno.
John, infatti, entrò poco dopo, la cartellina tra le mani e la radio alla cintura.
John Robertson era un uomo di statura media, i capelli castani con la riga di lato, gli occhi di un azzurro intenso, i baffi lunghi e folti, e quello che più conta una tremenda parlata da americano del sud, per lo più incomprensibile anche ai suoi. In Texas, nella sua contea, faceva il vice-sceriffo, e nella sua faccia potevi vedere la faccia del ragazzone che era stato: la prima volta che lo incontrai rimasi sconcertato nel constatare la diversità di quel volto da quello che mi sarei aspettato da uno sceriffo texano, un’immagine modellatasi nella mia fantasia in anni di cultura televisiva fatta di serials e polizieschi a stelle e strisce. Decisamente però il personaggio nella sua realtà era più interessante ed umano della mia icona. Qualche sera prima era entrato nell’aula raggiante, in uno stato di totale euforia, comunicandoci di essere diventato nonno per la terza volta. Avrà avuto sì e no 50 anni, e queste erano le cose che mi piacevano degli americani.
John quella mattina esordì con una serie di locuzioni e frasi e termini e risate e parole e idiomi di cui non afferrai nemmeno una parola se non qualche congiunzione qua e là. Istintivamente mi voltai di lato a cercare solidarietà nei colleghi, e vidi le espressioni confuse degli altri presenti: qualcuno fece finta di nulla, altri mi contraccambiarono lo sguardo preoccupato, pochi capirono cosa avesse detto. Dario non era tra questi, ma sapeva fingere bene, e questo di solito era sufficiente per togliersi dai pasticci.
John quindi passò ad elencare equipaggi e compiti, quando improvvisamente nella stanza riecheggiarono numeri e lettere in codice fonetico NATO: la centrale stava chiamando il nostro capo via radio. John estrasse il walkie talkie dalla cintura e ripose con il consueto codice. Una voce metallica e disturbata dalle interferenze gli comunicò di una segnalazione sospetta nella sua-nostra zona, davanti al chiosco "Palma". Forse una scatola sospetta, forse solo un falso allarme: che inviasse una pattuglia per verificare. John scorse velocemente la lista degli equipaggi, poi gettò uno sguardo ai presenti. La mia naturale capacità di avvertire i pericoli mi predispose in uno stato di attenzione, i sensi attenti a cogliere qualsiasi segnale ostile, e solo allora mi resi pienamente conto di quanto vicino gli ero capitato quella mattina, praticamente di fronte. Tentai di distrarre l’avversario fingendo di consultare un’inesistente documento dentro la mia agenda, ma la tecnica non servì a molto.
"YOU". Mi puntò il dito e gli occhi di cristallo azzurro. "Go there and check what’s going on". Percepii alle mie spalle i sospiri di sollievo dei ghanesi. Abbozzai un ultimo, disperato tentativo di sviare la chiamata, e lentamente e misurando le parole tentai un rimpallo: "Ok Sir, ma come anche tu hai appena notato elencando gli equipaggi, il mio compagno oggi non c’è, è malato, e io son da solo, e da solo certo non…." "No problem, cercatene un altro". Molto semplice. Molto americano.
Sfodero il miglior sorriso di cui sono capace e chiedo ai presenti se qualcuno per quella mattina è senza partner, ma nessuno mi risponde. Ovviamente.
A nessuno piace uscire alle 6 di mattina, con parecchi gradi sottozero per verificare una stupidaggine. Devo trovare un compagno, e lo devo fare in fretta, prima di essere obbligato ad alzare la voce con qualcuno e a caricarlo di peso sulla jeep. D’improvviso mi torna in mente d’aver notato, entrando nella stazione, una faccia nuova nell’ufficio del piantone, il desk office. Mi dirigo quindi all’ingresso, e mi presento a questo nuovo tedesco fresco fresco appena arrivato dalla Germania; non posso perdere troppo tempo, affretto le presentazioni e dopo i primi convenevoli gli propongo di unirsi a me per la pattuglia di quella mattina. A lui non sembra vero e non se lo fa ripetere due volte: si lascia alle spalle il bulgaro al quale era stato affiancato, preleviamo Bajram, l’interprete che ci è stato assegnato, e dopo un paio di minuti siamo già nel fuoristrada, diretti sul luogo della segnalazione.
Lungo il tragitto mi chiede per quale motivo siamo già fuori, operativi e con tanta fretta, e gli spiego cosa stiamo andando a fare. Con la coda dell’occhio intravedo la smorfia di disappunto: ci vuole poco a capire che s’è già pentito d’aver accettato così di slancio l’offerta dello "spaghetti" di turno, ma tant’è fratello, oramai sei nella mia barca e mi segui fino in fondo, dovunque essa mi porti, fosse anche in fondo al mare.
Raggiungiamo in pochi minuti l’obiettivo, parcheggiamo a breve distanza e ci indirizziamo tutti e tre verso l’ingresso principale.
Riconosco nell’oscurità il negozio, mi ci sono fermato qualche volta a comprare pane e sigarette, e so che appartiene a una famiglia serba di etnia Goran: serbi, ma di religione musulmana. E come tutti gli altri serbi, vessati e aggrediti sin dalla fine della guerra, oggetto di attentati e sequestri e uccisioni: una prova in più che quella appena conclusasi è stata tutto fuorché una guerra di religione.
L’oscurità è ancora fitta, e presso il negozio non troviamo nessuno ad attenderci; puntiamo distrattamente le torce sull’ingresso principale, e un’occhiata anche sul retro non ci fa insospettire per nulla di anomalo. Stiamo per segnalare via radio il nostro rientro, quando dal nulla salta fuori un vecchio.
Le Nazioni Unite sono qui da pochi mesi, ma la popolazione sa già molto bene come sono strutturate le pattuglie, e l’anziano si rivolge direttamente all’unico tra noi tre che veste abiti civili. Inizia il racconto, parlando sottovoce con l’interprete ma fissandoci in volto, studiando le nostre espressioni, attendendo le reazioni. Capiamo che ha paura e che cerca di nasconderla come può, nel tentativo di salvaguardare la dignità che comunque ci si aspetta nel luogo in cui ci troviamo da un uomo della sua età, dall’anziano della famiglia. Man mano che gli incomprensibili sussurri riempiono il silenzio, vedo il nostro Bajram ascoltare attento, poi sorpreso, poi cambiare espressione e diventare più cupo; quindi con aria preoccupata ci traduce il colloquio.
Ci dice che è stato il vecchio a chiamare. Ci dice che ha telefonato già un paio d’ore prima, ma nessuno fino a quel momento era intervenuto. Ci dice che durante la notte gli hanno lanciato una bomba sull’uscio di casa, che grazie a Dio non è esplosa, che tutta la famiglia è dentro terrorizzata, e che si è sistemata sull’angolo opposto della casa, addossata al muro più lontano e protetta dai materassi. Ci sono anche tre bambini, uno è nato una settimana fa. Ci dice che gli dispiace d’averci disturbato, che ci ha pensato su parecchio prima di chiamare, ma che proprio non sa come fare.
Bomba. Due ore fa. Bambini. Silenzio assoluto.
Guardo allibito per un secondo di troppo Bajram, me ne rendo conto e mi affretto ad uscire dall’enpasse. Chiedo conferma se quello che ho capito è esattamente ciò che ha detto. Si, è proprio così, non ho mancato una parola. Sento nelle vene qualcosa di strano che mi inizia a fluire assieme al sangue. Forse adrenalina, non so: qualcosa che condiziona i movimenti, e mi fa compiere dei gesti quasi automatici. Riprendo la torcia e mi faccio indicare il punto nel quale si troverebbe questa bomba. C’e ancora una flebile speranza che il vecchio si sia sbagliato, che abbia visto chissà cosa, ma guarda un po’ questa gente, sempre pronta a fare la parte delle vittime anche quando non ce n’è motivo. Ma è solo un maldestro tentativo di autoconvinzione: sento che il vecchio ha ragione ma cerco d’allontanare questa eventualità, quasi che la mia volontà, adesso, abbia il potere di influire sugli eventi. Bajram mi indica una zona proprio davanti alla porta di casa. Punto il faro, e la vedo.
Si, maledizione. E’ proprio una granata, inesplosa. Il sistema d’innesco è quasi completamente estratto, luccicante sotto il tiro incrociato della mia torcia e di quella del tedesco, rimasto prudentemente qualche metro indietro. Certamente un difetto (raro) di fabbricazione, e la leva di sgancio dovrebbe essere qui attorno. Infatti la calpesto subito dopo, ai miei piedi. Chi l’ha lanciata deve averlo fatto dalla posizione in cui mi trovo, o forse solo un metro a lato. Mi rendo subito conto della leggerezza che abbiamo commesso poco prima, nell’avvicinarci con tanta disinvoltura all’edificio, e di cosa sarebbe potuto succedere se gli eventi si fossero inanellati in un altro ordine, a formare una terribile fatalità. Ringrazio una volta di più la mia buona anima protettrice, faccio retrocedere tutti con cautela e informo la sala operativa di ciò che sta succedendo.
Intanto l’alba sta prendendo forma, e riusciamo ad intravedere le prime figure che si affrettano nella via. Chi inconsapevolmente si avvicina troppo viene gentilmente ma fermamente indirizzato su una strada parallela.
Dopo pochi minuti giunge la Land Rover con una squadra di artificieri inglesi. Spiego la situazione al capitano, che immediatamente dà ai suoi uomini le disposizioni necessarie a disinnescare l’ordigno.
Tutti si muovono come seguendo un copione già scritto; evidentemente la professionalità di questi uomini è veramente alta, e comunque da quel che mi riesce di capire, questo è uno dei casi più semplici che quotidianamente si trovano a dover risolvere. Come per il cow boy americano, anche l’artificiere elude totalmente l’immagine che me n’ero fatta, ma anche in questo caso mi rendo subito conto della concretezza del personaggio, e lo preferisco di gran lunga all’immagine nebulosa e hollywoodiana che avevo in mente . Resta il dubbio su cosa muova questa gente a fare certi mestieri ma so già che, come in numerose altre occasioni in questa missione, anche questa è una domanda che resterà senza risposta.
Dopo qualche minuto il capitano inglese mi avvicina e mi fa sapere che lui e i suoi uomini non ritengono opportuno rimuovere l’ordigno. C’è un margine considerevole di rischio, e non intendono commettere imprudenze inutili. Creeranno una sorta di gabbia di sacchi di sabbia, e faranno saltare la granata sul posto: un gran botto, un buco nel pavimento, e qualche vetro rotto. Chiedo se posso far evacuare la famiglia, e mi autorizza a farlo, ma solo dalla finestra del retro: le vibrazioni, anche quelle minori, potrebbero innescare l’ordigno, e né io né lui abbiamo voglia di complicarci questa già di per sé difficile giornata.
Ci portiamo sul retro della casa, e con molta cautela iniziamo ad evacuare la famiglia. Finalmente queste entità, questi personaggi anonimi che sino a quel momento erano rimasti sconosciuti, assumono un volto: il volto del terrore. Il cambiamento dello status quo che si era stabilizzato nelle loro ultime tre ore induce le donne al pianto, seguite a ruota dai bimbi. Gli occhi si arrossano anche a noi, che in silenzio continuiamo a prendere e passarci tra le braccia i bambini e ad aiutare gli adulti, riflettendo su quanto ingiusto sia ciò che sta accadendo, su quanto poco possiamo fare per evitarlo; una sensazione di rabbia ci pervade e ci turba, consapevoli della nostra piccolezza di fronte alla malvagità umana deliberatamente scelta.
Ora tutte le persone sono messe in sicurezza, la zona è transennata, altre pattuglie sono state inviate in nostro aiuto.
Il traffico della strada principale della città scorre qualche decina di metri più sotto, oramai già intenso, e tutti nelle loro posizioni attendono un segnale per bloccare passanti e auto e attendere lo scoppio.
Il capitano mi dice d’essere pronto. Dispongo via radio che da quel momento nessuno si avvicini , e che macchine e pedoni siano bloccati fino al nuovo ordine. Poi, pollice in su. Il capitano fa segno d’accendere la miccia, e tutti attendiamo con ansia l’esplosione. Passano i secondi, interminabili, e trattengo il respiro di fronte ad un evento per me nuovo, e che per questo mi incute una naturale inquietudine. Cerco di trovare nei miei ricordi un avvenimento da poter associare a questo momento, un qualcosa che non mi faccia trovare totalmente impreparato a ciò che sta per accadere, e l’unica immagine che mi torna alla mente è quella di quei pazzi sulle montagne friulane, la notte di un Natale di tanti anni fa, quando gridando al cielo dediche d’amore alle loro belle riempivano di carburo vecchie pentole d’acciaio, e in pochi secondi provocavano deflagrazioni da far tremare il terreno.
Poi, lo scoppio. Fortissimo. Sono a parecchie decine di metri di distanza, ma sento l’onda d’urto che mi investe, e dentro il petto cuore e polmoni che si ripercuotono per la deflagrazione e per un attimo mi lasciano senza respiro. Tutte le finestre della casa vanno in frantumi.
I soldati inglesi si avvicinano al piccolo cratere: costatano che tutto è a posto, caricano il loro materiale nella macchina e in pochi minuti si allontanano con la loro jeep, pronti ad un altro intervento. La loro giornata sarà più lunga della mia, e le statistiche dicono che prima di terminare il loro turno saranno impegnati in altri due o tre casi simili a questo.
I nastri con la scritta "police" vengono rimossi, gli equipaggi riprendono il loro normale pattugliamento. La famiglia fa rientro nella casa, sotto gli sguardi ostili di vicini e passanti. Non vi resterà ancora per molto, la granata è stata solo l’ultimo di una serie di avvertimenti che hanno solo una direzione, in crescendo, e il capo-famiglia mi fa capire che non c’è più posto per loro, in questo "Kosovo multietnico".
Risaliamo sulla nostra jeep e ci indirizziamo alla stazione, a completare il rapporto per l’accaduto.
Lungo il tragitto guardo fuori dal finestrino, in silenzio. Gli anziani che affondano i loro passi incerti nella neve ancora fresca. I bambini agli angoli delle strade che vendono sigarette e bottiglie di benzina annacquata. I resti di una moschea fatta saltare in aria solo poche settimane prima. Ripenso a quel bimbo, appena venuto al mondo e già accolto con una bomba a mano . Quanto sarà dura la tua vita, figlio mio. Non so quanto potrò fare per rendertela più serena, ma quel poco lo farò sino in fondo.
"Pristina Control, questa è Alpha 2 One. Riprendiamo il normale servizio".
Questo è il nostro lavoro. Questa è una mattina a Pristina, Kosovo, Dicembre 1999.