Edoardo Menghi

Morire per sempre

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È notte.
L’umidità entra nelle ossa come non mai. Cerco di proteggermi rannicchiandomi sul fondo del mio rifugio, ma quella maledetta porta è come se non ci fosse. Nella semi oscurità osservo il numero tatuato sulla mia pelle: 007458. Io vivo per questo numero, mangio per questo numero, potrei uccidere per questo numero. Basta che mi chiedano di farlo. Il mio addestramento è stato superiore alle aspettative. L’istruttore stesso rimaneva perplesso nel vedermi combattere con cupidigia di sangue e vittime. E’istinto, diceva, basta saperlo controllare e sarai il migliore. La verità è che io mi diverto ad uccidere; è come se una forza interiore si appropri del mio corpo e ne guidi le mosse letali. Non c’è scampo, non c’è commiserazione per la vittima. Sono leggi universali. Nessuno le ha mai scritte e sono irrefrenabili. Io sono nato per questo. L’ho sempre creduto. Me l’hanno sempre fatto credere. Ma domani toccherà a me. Che cosa? Morire, signori, morire per sempre….

Ci siamo conosciuti per caso. Camminavo allegramente in compagnia di mio fratello e lo notai da lontano. Ci osservava ed io provai imbarazzo per quello sguardo che indagava i nostri movimenti. Volevo nascondermi, ma il mio già grande orgoglio mi spingeva come un automa verso di Lui. A testa alta. Come sempre. Mio fratello, dietro di me, sembrava non aver capito la situazione. E non la capì nemmeno quando lo dovetti salutare. Quando con gli occhi gli dissi che da quel momento non ci saremmo mai più visti. E così fu. Così morì mio fratello dentro di me. Niente baci ne’ abbracci, solo le sue pupille nelle mie. Frazioni di secondi lunghi come una vita; come due vite…le nostre. Mi fece sorridere pensare di dirgli in bocca al lupo. A volte è meglio rimanere in silenzio.
E così lo seguii, fiducioso di aver trovato un vero amico, uno con cui passare il tempo…molto tempo….tutta la vita. Mi accolse in casa sua come un parente stretto e per me divenne come un padre, come quel padre che avevo visto solo per qualche secondo alcuni giorni dopo la mia nascita. Ma forse mi sbagliavo…non era mio padre, quello. Questo è mio padre. E chi altri se non colui che ti sfama, che ti porta a giocare, che giorno dopo giorno ti insegna a essere sempre più scaltro nella vita. Che ti insegna ad…uccidere.

Era una fresca mattina di primavera e come al solito mi ero svegliato molto presto, prima dell’alba. Avevo passeggiato distrattamente nel bosco vicino a casa in attesa che lui si svegliasse. Un po’ di ginnastica ogni mattina consente di tenere il fisico in forma, così mi dedicai ad alcuni esercizi di stretching. Poi una bella corsa e finalmente eccolo. Era già pronto anche Lui. Indossava sempre lo stesso vestito quando dovevamo fare allenamento ed io, per questo motivo, lo riconoscevo anche a centinaia di metri di distanza. Una pacca sulle spalle e già eravamo in macchina: lui guidava ed io dietro a guardare il panorama. Impiegammo, quel giorno, circa mezz’ora per arrivare alla Sede. Lui scese per  salutare la persona che stazionava vicina al cancello; si scambiarono due parole e poi ripartimmo.

La Sede era ben recintata: muri alti ne impedivano la vista all’interno e folta vegetazione spinosa ne contornava la basi. Più volte mi dovettero ricoverare per togliere quelle maledette spine, ma faceva parte dell’addestramento, usava dire il medico ridendo. Ridevo anch’io, ma a denti stretti.
Mi trovavo in mezzo al campo e già da un’ora ero in continuo movimento. Salti, corse, accelerazioni, capriole…poi d’un tratto le cose cambiarono. Percepii una presenza alle mie spalle. Ne sentii l’odore, nei identificai i movimenti composti e guardinghi. Sembrava scivolare sulla stessa ombra che produceva. Non era una minaccia, lo capii subito, ma era una presenza nuova. Guardai Lui senza voltarmi. Mi bastò un cenno degli occhi per capire alla perfezione quello che dovevo fare. Nessun indugio, nessun ripensamento. Così morì quella presenza. La sua ombra, prima danzante, poi immobile sotto un corpo vuoto.
 
Qualche mese più tardi compresi che facevo parte del progetto Kalòs: individui superaddestrati per missioni ad alto rischio. Bello, non c’è che dire…
Non che il concetto di bello fosse prevalente su altri, nella mia mente, ma se bello è uguale a divertente ed appagante, le mie missioni erano sicuramente molto belle.

Con Lui ero impiegato quasi settimanalmente in uscite operative. Anche Lui si esponeva molto e spessissimo dovevamo entrambi ricorrere alle cure del medico. Ematomi e ferite erano inevitabili nel nostro lavoro. Spesso però al contatto fisico con gli avversari si preferiva una strategia di contenimento, specie quando il nemico era in soprannumero rispetto a noi. Devo dire, comunque, che bastava la nostra presenza per calmare molto gli animi.

Ero molto felice di lavorare con Lui e lo ero anche il giorno che mi disse di preparami perché ci era stato assegnato un incarico molto delicato.

Partimmo in aereo. Ero un po’ agitato. Non avevo mai volato prima e Lui mi diede dei leggeri sedativi che mi fecero sprofondare in una dolce sonnolenza. Ricordo che in quei momenti di dormiveglia i miei pensieri andarono alla mia nascita, alle mani che mi presero in braccio la prima volta, alla mia mamma che mi strinse a sé in un caldo abbraccio. Ancora cieco, percepivo la presenza di mio fratello gemello che lottava per avere la sua parte di affetto e di quel liquido dolcissimo che ci nutrì per i giorni a venire. Poi un sobbalzo dell’aereo mi fece riemergere dal sonno. Guardai il mio numero, quel numero, e capii che era venuto il momento di lavorare.

Il giorno che mi assegnarono il numero non lo scorderò mai. Fu una cerimonia bellissima. Come me pochi altri si poterono fregiare del numero. Fu Lui ad assegnarmelo al termine di uno spettacolo ginnico che mi vide vincitore su tutti gli altri. L’incisione fu piuttosto dolorosa, ma faceva parte della procedura e così mi sottoposi al piccolo intervento, senza paura.

Non ho mai avuto paura in vita mia, tranne una volta, tranne ora, che vi sto raccontando la mia vita affacciato ad una finestra che fra poche ore si chiuderà definitivamente. Lo so, lo sento. Lui me lo ha detto ieri, quando, invece di tornare a casa, mi ha portato in questa stanza ed ha chiuso quella porta. Ora ho paura. Perché non sei qui con me? Come sempre, come ogni notte che ho vegliato sul tuo sonno e tu sul mio.

Arrivammo dopo un paio di ore di volo. Eravamo in molti e l’alba ancora doveva nascere. Alcune autovetture fuoristrada ci portarono sul luogo dell’intervento. Era stata segnalata la presenza di un noto latitante in un casolare abbandonato, situato in una valletta alla periferia di un grosso centro urbano. Vedevo il chiarore delle luci della città riflettersi sugli strati bassi delle nuvole nere, dense di pioggia, là, dietro la collina. Nessuno parlava. Solo gesti, a me, addestratissimo, molto familiari.

Ad un certo punto, uno che doveva essere il capo diede l’ordine di procedere… e si scatenò il finimondo. Io guardavo Lui in attesa del segnale e Lui mi disse di stare calmo mentre correvamo in direzione della porta, di quella maledetta porta che era il nostro obbiettivo. Non fu agevole neanche per me attraversare il pianoro ed il fossato che ci dividevano dal casolare. Lui, nel saltare un tronco, cadde nel buio ed io persi il contatto fisico e visivo. Cosa fare? Mi aveva insegnato, una volta partita l’azione, a non fermarmi per nessuna ragione se non per suo ordine. Continuai a correre nel buio, da solo, con l’orecchio teso in attesa di quell’ordine che non arrivò mai.
A pochi metri di distanza la porta si aprì di scatto ed intravidi una persona nel buio. Vidi i suoi occhi increduli fissarsi su di me. Fu una frazione di secondo. Niente di più. Lo uccisi come mi avevano insegnato a fare. Ma stavolta era diverso, lo sentivo. Qualcosa nella procedura non aveva funzionato.
Il giorno dopo si scoprì che quel casolare non aveva nulla a che fare con il latitante. Era la casa di una pastore e della sua famiglia, dei suoi figli, di quel bambino al quale strappai la gola…

E’ giunta l’ora, il sole è appena sorto. Sento dei passi che si avvicinano alla mia stanza. Due mani aprono la porta. Indossano dei guanti neri di gomma. Mi trascinano fuori dal quel mio ultimo rifugio. Mi guardo intorno. Il paesaggio mi è familiare. Sono nella Sede. E Lui? E’ lì, ne percepisco la presenza. Poi lo vedo, è distante, ma indossa quel vestito che lo rende unico, per me. Non si avvicina. Non si può avvicinare: glielo hanno proibito. Come lo vedo alzo la testa, come quando lo conobbi, e do sicurezza al mio passo. Spero che non si accorga che le mie gambe sono molli come il burro. Lui è lì e questo mi basta. Percepisco, ancora, due righe umide sotto i suoi occhi. Non piangere papà. Tu sei stato bravo, io no, sembra. Addio a tutti. Vado a morire per sempre….

Lui attese che lo portassero via, poi si avvicinò al rifugio; entrò. Volle toccare il suo ultimo giaciglio forse per conservare il calore di quel corpo che lo aveva amato, ricambiato, per tanto tempo. Nel chiudere la porta lesse un cartello che qualcuno vi aveva apposto sopra:


- Tribunale  di Roma -
Ordine d’esecuzione n° 0034/04
Soppressione tramite iniezione letale da eseguirsi in data 13.10.2004.
Nome: Kuno
Razza: Pastore Tedesco
Età: Cinque anni
Matricola Polizia di Stato: 007458    
  
Nota dell’autore:
Il presente scritto è frutto di pura fantasia. Non esistono centri cinofili ufficiali che addestrino cani all’uccisione di esseri umani e nessuna tecnica di addestramento prevede l’utilizzo di esseri viventi come vittime
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01/05/2005