Umberto Galimberti

Sicurezza

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Racconta Platone che un giorno Zeus incaricò Epimeteo di rifornire tutti i viventi di una qualche capacità, in modo che potessero provvedere alla loro vita. Giunto all’uomo, Epimeteo si trovò a mani vuote perché, da improvvido (il suo nome infatti significa “colui che pensa dopo”), aveva distribuito a tutti i viventi le virtù di cui disponeva e non gliene rimaneva più nessuna.
Allora Zeus, impietositosi, chiamò il fratello di Epimeteo, Prometeo (che significa “colui che pensa in anticipo”) e lo incaricò di dare agli uomini la sua virtù, che è quella di “prevedere” e “provvedere” al proprio futuro. Per questo dice Hobbes, un grande filosofo inglese del 1600, mentre gli animali mangiano quando hanno fame, “gli uomini sono affamati anche della fame futura”.

Ed è per questa “fame futura” che gli uomini presero a coltivare la terra, ad allevare gli animali, a raccogliersi in piccole comunità, a stipulare amicizie in modo che ciascuno potesse fidarsi dell’altro e insieme difendere meglio i beni acquisiti, per poter garantire una certa sicurezza alla loro vita. Una sicurezza nei confronti della natura che, oltre a essere benefica, non risparmia cataclismi, e una sicurezza nei confronti dei propri simili che non sono solo amici, ma anche ostili. Per questo costruirono città difese da alte mura, stipularono all’interno delle città degli accordi che chiamarono “leggi”, capaci di regolare i rapporti tra i vari abitanti, in modo che ciascuno fosse garantito nella disponibilità dei suoi beni e nel futuro della sua prole.
Fu un processo lungo, durante il quale l’umanità apprese che, se voleva evitare la guerra di tutti contro tutti in una sequenza infinita di vendette, era meglio che ciascun individuo consegnasse una parte della sua libertà a quell’entità superiore che poi venne chiamata Stato, il quale, senza amore e senza odio, fosse in grado di fissare per ciascuno i limiti all’esercizio della sua libertà, in modo che tutti fossero un po’ meno liberi, ma più sicuri.
La sicurezza, infatti, ha un costo in termini di libertà individuale e quindi anche in termini di felicità, se è vero che ogni restrizione comporta un sacrificio, una limitazione. Fu proprio a partire da queste considerazioni che Freud un giorno ebbe a dire: “L’umanità ha sempre barattato un po’ di felicità per un po’ di sicurezza”.

Il problema oggi è di vedere se questo baratto è proporzionato. Se la ricchezza e la potenza di noi occidentali (che pur essendo il 17 per cento della popolazione mondiale, consumiamo l’83 per cento delle risorse della terra) non abbia attirato su di noi il risentimento del mondo e l’odio dei disperati della Terra che ci costringono, per ragioni di sicurezza, a fare dell’Occidente una società assediata, con tanti di quei dispositivi di controllo e di difesa da limitare la nostra libertà in una misura che, se non i nostri padri, certo i nostri nonni non avrebbero neppure sospettato.
S’è venuto così a creare quel corto circuito per cui la ricchezza chiede sempre maggiore sicurezza e la sicurezza una sempre maggiore limitazione di libertà. Non è un caso che nel declino generale dell’economia europea le industrie più fiorenti sono quelle che costruiscono dispositivi di sicurezza. Meglio assediati ma sempre più sicuri? Era proprio questa la meta a cui tendeva il progresso della nostra civiltà? Qui qualche riflessione bisognerà pur farla, per non finire prigionieri delle nostre gabbie, che non cessano di essere gabbie per il fatto che sono dorate.

Ma oltre all’insicurezza determinata dai disperati della Terra, c’è l’insicurezza che nasce dalla percezione diffusa che siamo solo all’inizio di quel processo irreversibile che traduce le grandi città in agglomerati di sconosciuti, senza più quel tessuto sociale che creava quel rapporto fiduciario fra gli abitanti del territorio. È evidente che non possiamo chiedere alle forze dell’ordine di ricostruire quei vincoli sociali venuti meno nelle nostre città. E allora bisogna lavorare sui processi d’immigrazione da rendere compatibili con i processi d’inserimento, sui processi di emarginazione da ridurre con le pratiche di recupero, bisogna lavorare sulla scuola che, in termini di educazione, soffre molto di più di quanto non si creda, bisogna lavorare sulla vita delle carceri per evitare di coltivare un’umanità che, quando sarà libera, lo sarà solo per tornare a delinquere, bisognerà meglio curare i programmi televisivi che, dicono le statistiche, distribuiscono sui vari canali venti delitti all’ora. E soprattutto persuaderci che la sicurezza non è delegabile a una sola istituzione dello Stato, se poi tutte le altre non si fanno carico di insegnare, diffondere e difendere tutte quelle forme di legalità che costituiscono il terreno naturale della nostra sicurezza.
01/05/2005