Maria Matrullo

Scrittura colpevole

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La grafia è un tratto distintivo della persona. E può contribuire a individuare l’autore di un reato. Gli strumenti d’analisi della polizia

Scrittura colpevole

Chi scrive descrive se stesso. La sequenza di lettere e parole su un foglio bianco riflette la personalità di chi l’ha tracciata e può rivelare, è proprio il caso di dire nero su bianco, indizi preziosi sullo stile di vita, lo stato di salute, le capacità professionali, le relazioni sociali o affettive, l’emotività e il modo di reagire allo stress. Questo perché a guidare la mano è il cervello, che trasmette circa 9 impulsi nervosi al secondo, vale a dire 540 stimoli sensitivi e motori al minuto. La scrittura richiede dunque il coinvolgimento di tutte le strutture cerebrali e il canale tra mente e corpo durante il movimento grafico è così forte che diventa praticamente impossibile trovarsi di fronte a due scritture identiche. Le somiglianze potranno essere numerose, ma anche il più abile contraffattore prima o poi si tradirà con un segno della penna sfuggito al controllo, utile a bollare l’autore di un reato con la stessa efficienza dell’ottocentesca marchiatura a fuoco.  
Convinti dell’unicità e dell’individualità della scrittura sono gli esperti della Sezione identità grafiche della Direzione centrale anticrimine della Polizia di Stato, che fanno capo alla seconda divisione della Scientifica, diretta dal primo dirigente Franco Materni. Lenti di ingrandimento, microscopi stereoscopici e scanner sono le “armi” da loro utilizzate per individuare il colpevole, come l’autore della rivendicazione di un attentato o un falsario di testamenti o titoli di credito, attraverso l’applicazione della grafonomia, cioè l’analisi dei processi dinamici della scrittura.

Le origini
L’esigenza di stabilire la paternità di uno scritto, per capire chi può nascondersi dietro un foglio, diventa forte agli inizi degli anni Settanta, con i primi volantini di rivendicazione degli attentati terroristici. Nasce così l’Ufficio accertamenti grafici, alle prese con i numerosissimi e interminabili proclami delle Brigate Rosse o con i comunicati più snelli della destra eversiva. In qualunque caso l’obiettivo era quello di identificare l’autore di quelle lettere anonime e capire se esse potevano essere riconducibili a una sola mano.
Per la perizia grafica vennero applicati – e si continua a farlo – gli insegnamenti del fondatore della polizia scientifica, Umberto Ottolenghi, che già dal 1886 si era interessato alla grafia degli alienati mentali. Attraverso numerose ricerche scientifiche di psichiatria forense, antropologia criminale e medicina legale, Ottolenghi arrivò alla conclusione che analizzare le variazioni del grafismo individuale non solo consentiva di rilevare eventuali alterazioni del sistema nervoso, ma anche stati di eccitamenti, di depressione e persino attitudini violente più o meno permanenti. Da qui l’inserimento dell’identificazione grafica, nel 1902, all’interno del programma di polizia scientifica e la convinzione che la scrittura, insieme alla parola, all’atteggiamento e all’andatura, possono essere considerati un’impronta della personalità umana.
Chiave di volta è stato il passaggio dal metodo empirico a quello scientifico, attraverso il ricorso ai criteri di segnalamento descrittivo e antropometrico ideati da Alphonse Bertillon, in modo da procedere dal generale al particolare, fino alla ricerca della traccia, del singolo dettaglio.

Il metodo d’indagine
Cosa fare dunque di fronte a un manoscritto da esaminare, ad esempio una lettera anonima? Il documento – come spiega l’ispettore capo Pasquale Gismondi, vera e propria memoria storica del laboratorio di indagini grafiche – deve essere innanzitutto esaminato per rilevarne i “connotati salienti”, come la forma della grafia, la dimensione, la regolarità, la direzione, e la pressione esercitata sul foglio. Si passa quindi alla ricerca del “contrassegno”, del cosiddetto “gesto fuggitivo” incontrollato: una singola lettera, un legamento, un tratto iniziale o finale della scrittura, qualunque elemento costante e ricorrente capace di avvalorare l’unicità del gesto grafico.
A questo punto l’indagato viene sottoposto a un “saggio grafico”: gli viene cioè richiesto di scrivere “in diretta” per poter poi confrontare i diversi documenti disponibili. Senza dubbio la grafia di una persona sottoposta a procedimento giudiziario può essere diversa da quella abituale, magari per uno stato d’ansia o per l’intenzione di camuffare la propria scrittura spontanea. Proprio per questo motivo in genere il saggio è piuttosto esteso: in poche righe è ancora possibile mantenere un controllo ferreo sulla propria mano, riuscendo magari a dissimulare i tratti tipici della grafia. Dalla seconda pagina in poi però prevale l’automatismo del movimento e chi scrive comincia inevitabilmente a rispecchiarsi sempre più chiaramente sul foglio di carta. Soprattutto se il soggetto viene “distratto”, magari chiedendogli di cambiare tipo di penna, di passare dal corsivo allo stampatello o di scrivere a velocità differenti. È proprio il meccanismo involontario della grafia a rendere valido il saggio anche in un’epoca come quella attuale, dove la penna ha ormai ceduto quasi definitivamente il passo al computer. La mancanza di “allenamento”, infatti, all’inizio può rendere meno fluida la scrittura, ma già dopo una decina di righe le strutture mentali cominceranno inevitabilmente a trasparire.
Una volta acquisito il saggio grafico, i documenti vengono messi a confronto: più il materiale a disposizione è abbondante, più c’è la possibilità di riscontrare o meno somiglianze e quindi di esprimere un giudizio di identità attendibile.

I casi
Dal rapimento di Aldo Moro all’omicidio di Marco Biagi, dall’ultimo covo delle nuove Br in via Montecuccoli a Roma agli appalti truccati in Sicilia, è impossibile raccontare i numerosissimi casi che da oltre trent’anni sono all’esame della sezione indagini grafiche. Ne abbiamo scelti due solo per testimoniare come concretamente questo tipo di perizie rappresenti un contributo prezioso per il successo di un’indagine. 

Le lenzuola di Agrigento
“Non ci fermeremo più fino a quando non pregherete un solo Dio Allahuacbar”. È il 14 febbraio 2002. Il messaggio viene ritrovato ad Agrigento, scritto a mano con un grosso pennarello nero su un lenzuolo bianco appeso a una parete del Tempio della Concordia. Le scritte inneggianti al mondo islamico sono composte in stampatello, con caratteri a prima vista artefatti. Tre mesi dopo, mentre la squadra della sezione indagini grafiche della polizia scientifica è al lavoro per esaminare l’anomalo reperto, una bombola a gas viene fatta esplodere nella metropolitana di Milano. Simili le rivendicazioni, con lo stesso lenzuolo scritto a mano: questa volta però gli uomini della Digos che indagano sul caso individuano un sospetto. Quando il secondo fascicolo arriva alla Scientifica, il collegamento è immediato: non solo le modalità dell’azione terroristica presentano evidenti similitudini, ma anche la grafia sulle due lenzuola ha molti elementi in comune. Il saggio grafico al quale è stato poi sottoposto l’indiziato non lascia dubbi: il confronto è la conferma definitiva che i manifesti di rivendicazione sono entrambi opera della stessa mano.

Il sequestro Melis
“Ciao Luca ti voglio bene mamma Silvia”: poche parole scritte a mano su un foglio a quadretti e in calce una firma: quella di Silvia Melis, figlia di un imprenditore cagliaritano, rapita il 19 febbraio 1997 a Tortolì e liberata l’11 novembre dopo 265 giorni di prigionia. Il biglietto doveva essere la prova, chiesta dalla famiglia Melis ai rapitori, che la ragazza sequestrata era ancora viva.
Il foglio è stato confrontato dalla Scientifica con altri documenti scritti a mano da Silvia Melis, come i promemoria appuntati nella sua agenda: fin troppo evidente l’alterazione della pressione, provocata dal forte stato di tensione in cui si trovava la donna quando ha scritto quelle parole, ma le lettere erano state tracciate senza dubbio dalla sua mano perché molti segni caratteristici della scrittura erano identici.


Come diventare grafologi
Il metodo migliore per imparare a leggere in profondità la grafia è l’apprendimento sul campo. Lo sanno bene gli operatori di polizia, ogni giorno alle prese con nuovi manoscritti o dattiloscritti da esaminare. La grafologia però, utilizzata sempre più spesso anche in Italia per selezionare i dipendenti, per indirizzare un ragazzo verso il percorso di studi più appropriato o per valutare l’affinità di coppia, è approdata anche all’università. È possibile laurearsi in Consulenza grafologica, frequentando il corso triennale presso la facoltà di Scienze della formazione ad Urbino, oppure presso la Lumsa, la Libera università Maria Santissima Assunta. Esistono inoltre diverse scuole superiori che rilasciano il diploma in grafologia. Per saperne di più è possibile rivolgersi all’Associazione grafologica italiana www.a-g-i.it, all’Associazione grafologi professionisti www.grafologiprofessionisti.com oppure all’Arigraf, associazione italiana di ricerca grafologica www.arigraf.it.
01/05/2005