Annalisa Bucchieri

Investigatori al museo

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Dalla lupa capitolina ai sigilli dell’antica Creta, dalle mummie egizie alla Sacra Sindone. Le nuove scoperte della storia e dell’archeologia passano per i laboratori della Scientifica

Investigatori al museo

Il dattiloscopista del Gabinetto di Torino con camice, guanti, lente di ingrandimento e tanta pazienza sta rilevando le impronte su decine di reperti. Ma non c’è fretta, nessun assassino da catturare. Il giallo da risolvere ha come protagonista l’Egitto dei faraoni e i reperti sono statuine funerarie del Museo egizio di Torino, gli ushabti, risalenti a tremila anni fa: bisogna cercare le impressioni digitali di chi le ha forgiate e verificare se appartengono alla stessa persona.
“Succede sempre più spesso agli esperti della Scientifica – spiega Carlo Bui direttore dell’Uacv (Unità analisi crimine violento), con un passato da studioso di pittura, nobilitato dalla partecipazione al restauro del Cenacolo di Leonardo da Vinci – di essere chiamati a investigare sul passato fianco a fianco di archeologi, restauratori, storici. Sono, infatti, molte le tecniche d’analisi utilizzate nei laboratori della polizia che possono essere applicate a questo tipo di indagine speciale volta ad accertare una verità storica”.

“Non è stato sempre così – continua Bui – Fino agli anni ’70 la maggioranza degli strumenti d’analisi era stata collaudata, applicata e perfezionata dai Beni culturali, per i restauri, per le perizie su quadri, per le patologie dei libri, per le datazioni di oggetti antichi. In quegli anni la polizia scientifica non aveva ancora sviluppato metodologie avanzate. Solo dagli anni ’90 in poi le scienze forensi hanno acquisito sistematicità e in Europa è stato definito uno standard comune di qualità. Oggi, però, è sicuramente il gabinetto scientifico della polizia a trainare i Beni culturali verso un approccio diagnostico superavanzato”. Bisogna aggiungere che, oltre a essere all’avanguardia, gli strumenti del metodo criminalistico sono concepiti in modo da non alterare i reperti di interesse giudiziario durante l’analisi. La stessa necessità che si ha nell’esame dei reperti storici e artistici. 

L’antichità “a portata di mano”
Tra i tanti camici bianchi i più gettonati da musei e soprintendenze sono stati finora i dattiloscopisti. Le maggiori richieste hanno riguardato l’accertamento sugli oggetti artistici o utensili della presenza di impronte digitali leggibili. Un modo per stabilire la serialità dei manufatti, cioè se siano stati prodotti dallo stesso artigiano, come è risultato per 30 cretule, sigilli utilizzati per la contabilità delle merci, rinvenute durante gli scavi di Haghia Triada a Creta.
Altre volte l’indagine dattilare consente di carpire qualche segreto in più sulle fasi di lavorazione manuale e sulla procedura usata nelle botteghe. È ciò che è emerso durante l’emozionante collaborazione del Gabinetto interregionale del Lazio, Abruzzo e Umbria, al restauro del simbolo di Roma, la Lupa Capitolina. Una microtelecamera introdotta attraverso un foro sotto il ventre dell’animale ha accertato la presenza di un nucleo originario di argilla. Sui campioni d’argilla prelevati gli esperti poliziotti hanno potuto individuare la traccia delle mani dell’artigiano che ha lavorato il calco con i polpastrelli: era un allievo della scuola di Vulca, il più famoso vasaio etrusco mai esistito.

Per i cultori della materia, queste, che ai profani appaiono piccole scoperte, diventano tasselli importantissimi per ricostruire realtà perdute. Lo dimostrano non solo le numerose pubblicazioni sulle riviste scientifiche ma l’entusiasmo che ha indotto i ricercatori del Museo egizio di Torino a costituire una banca dati, Aiderma, per archiviare le impronte digitali presenti sui reperti archeologici. La costituzione di questo database archeologico dattilare fornirà agli studiosi la possibilità di interagire e consultare tutti i frammenti papillari rilevati in differenti occasioni.
Nemmeno gli antropologi hanno tardato a rendersi conto del prezioso aiuto dei dattiloscopisti piemontesi e hanno richiesto il prelievo delle impronte dei piedi di una mummia di 5.000 anni fa conservata al Museo di etnografia di Torino. Un modo per capire meglio le caratteristiche della nostra specie e per verificare se le impronte umane si sono evolute nel corso dei millenni.
Grazie al passaparola accademico è vicino il giorno in cui Alessandro Vezzosi, direttore del Museo ideale di Leonardo a Vinci (Firenze), si rivolgerà alla Scientifica per verificare le ultime impronte del maestro italiano scoperte su due manoscritti ritrovati nella biblioteca reale di Madrid. Già nel 1978 trovò le “ditate” del genio rinascimentale sulla collana di perle della Dama con l’ermellino. Del resto Leonardo utilizzava spesso i polpastrelli per dipingere e questo diventò quasi un crisma stilistico della sua tecnica pittorica. Ora Vezzosi ha iniziato a cercare le impronte di Raffaello e Michelangelo.

Poter guardare oltre
La tecnica della fotografia all’infrarosso è un grimaldello che permette di aprire tanti chiavistelli del passato. La scientifica l’ha usata per recuperare le parole sotto le cancellature negli epistolari censurati di importanti personaggi politici, come Vittorio Foa, uno dei padri della Costituzione, ed Ernesto Rossi, fondatore di Giustizia e libertà. Oltre all’inchiostro, l’infrarosso permette di attraversare anche il colore a olio o a tempera e quindi di vedere il disegno tracciato come bozza di un dipinto o di un affresco per verificare il progetto originario e gli eventuali ripensamenti dell’artista.

Quanti anni hai?
Arte e storia sono le uniche due signore alle quali sia lecito chiedere l’età, ma come tutte le altre sono reticenti nel rivelarla. Un aiuto sembra venire dalle avanguardistiche tecniche nucleari che la polizia italiana sta apprendendo dai corsi di formazione dell’Agenzia atomica europea e che potranno risultare utilissime per la datazione dei reperti. Al momento già sono impiegati i fasci ionici attraverso un apparecchio chiamato pixe per verificare i componenti chimici e atomici di un materiale, con eccellenti risultati sugli inchiostri. Ha già portato informazioni preziose su manoscritti antichi. Una vera bacchetta magica per laboratori archeometrici delle università dove si studiano metodologie scientifiche per ricerche nei vari campi dell’arte, e per orientare le operazioni di conservazione e di restauro.

La genetica dei fatti
Se siete fra i milioni di persone che hanno letto Il Codice da Vinci di Dan Brown non potrete che sperare nell’eventualità che un giorno gli esperti della polizia vengano chiamati ad accertare le tanto discusse affermazioni contenute nel libro. Cosa potrebbe accadere se la Scientifica avesse modo di fare un test del dna sulle tracce di sangue della Sindone e confrontarle con quelle di un reale merovingio? Si riuscirebbe a trovare il discendente dell’uomo sindonico o, ipotesi più fantastorica, addirittura clonarlo? L’esame del dna ci può far accedere a informazioni preziosissime capaci di riscrivere, se non la religione – che è faccenda di fede – qualche pagina di storia. Una delle prime identificazioni genetiche “postume” è stata fatta su Anastasia, supposta superstite dei Romanov, che il dna ha confermato essere solo “supposta”. Ne sono seguite moltissime, la più recente sulla mummia di Tutankamon. E attualmente il paleopatologo Gino Fornaciari sta esaminando le tombe dei Medici a Firenze per appurare se erano effettivamente tutti fratelli e se sono morti per cause naturali.

L’identikit: ridare volto al passato
Indiscutibilmente la Polizia di Stato è la regina dell’identikit. Ecco perché gli egittologi di Torino hanno coinvolto la Scientifica in un’avventurosa e mai tentata prima ricostruzione tridimensionale del volto della mummia di Harwa l’artigiano, sepolto 3.200 anni fa nella Valle delle Regine. Partendo da una Tac, il corpo di Harwa è stato virtualmente sbendato, la sua immagine riprodotta su un sofisticatissimo computer, utilizzando il Sistema di ricostruzione elettronico del volto (Sirev) messo a punto da Scotland Yard, è poi stata ricreata in tridimensione con la stessa plastilina servita a Steven Spielberg per i dinosauri di Jurassic Park. E oggi, grazie alla cooperazione tra l’Uacv e il Gabinetto interregionale di Torino, la testa di Harwa è esposta accanto al sarcofago dei figli di Ramses III.
Sulla ricostruzione dei volti l’Uacv ha svolto ultimamente un lavoro di grande suggestione: disegnare il volto di Gesù bambino partendo dalla Sacra Sindone, ovvero dall’immagine di un adulto di 33 anni. Più che il supporto informatico, è stata determinante l’abilità del disegnatore, Andrea D’Amore, che abituato a invecchiare i ritratti di persone giovani, come nei casi di latitanti o persone scomparse, in questo caso ha dovuto compiere un’opera di ringiovanimento del volto che ha comportato tra gli interventi più creativi, la riduzione della mascella, il rialzo del mento, la correzione della gibbosità nasale di probabile origine traumatica presente nel volto sindonico. La risonanza del sorprendente “ritratto” di Gesù bambino, richiesto dalle reti televisive Mediaset per uno speciale andato in onda durante le scorse festività natalizie, ha varcato i confini nazionali. 


Il pelo nell’uovo, ovvero le tecniche morelliane
Può suonare strano, eppure la Scientifica, mettendo al servizio del sapere umanistico le proprie tecniche, restituisce un vecchio favore. La criminalistica deve molto a un metodo critico applicato ai dipinti, il metodo morelliano. Giovanni Morelli era un medico bergamasco dell’ottocento, passato alla storia come l’inventore dell’attribuzionismo nella critica d’arte, cioè del metodo che permetteva di identificare l’autore di un quadro privo di firma o documenti che ne attestassero la paternità. Morelli riuscì a risolvere i casi di attribuzione più controversi prestando attenzione ai dettagli anatomici apparentemente più trascurabili e insignificanti (come i lobi delle orecchie, le sopracciglia, le unghie delle mani), dettagli che l’artista, secondo la sua teoria, sarebbe portato a replicare meccanicamente in ogni personaggio ritratto. Questo perché, sosteneva il medico bergamasco, la personalità va rintracciata “là dove lo sforzo è meno intenso”, e l’espressione risulta più spontanea. A ribadire la validità di tale criterio ottanta anni dopo è addirittura Freud che riconosce nel metodo morelliano un contributo fondamentale alla psicanalisi. Per analogia quando il detective in divisa si accinge all’analisi dei segni della scena del delitto, la vera firma dell’autore non la va a cercare in quelli macroscopici spesso messaggio volontario dell’assassino (per esempio una carta da gioco lasciata sul corpo della vittima), ma nei particolari, nelle zone laterali dove il delinquente si è lasciato sfuggire qualcosa o ha agito in maniera inconscia e istintiva, meno soffocata dalla razionalità e dal calcolo.
Neno Giovannelli

01/04/2005