Alberto Intini*

Ricordiamolo così

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Nicola Calipari attraverso le parole di chi per anni ha lavorato al suo fianco. Un uomo fuori dal comune

Ricordiamolo così

Il giorno dopo le celebrazioni funebri di Nicola Calipari, incrociando nei corridoi della questura di Roma, Giuseppe, ispettore della Squadra mobile, ho notato che abbassava mestamente lo sguardo. Ha voluto, con la discrezione e la sensibilità che lo contraddistinguono, evitare di incontrare i miei occhi, temendo la certa commozione sua e mia. Soprattutto sapeva che qualsiasi parola sarebbe stata superflua, qualsiasi considerazione sarebbe risultata insignificante rispetto al grande dolore che in quel momento ci attanagliava dentro. Come tuttora, al ricordo, ci prende un groppo alla gola.

Il brevissimo cenno di sguardi percepiti prima che fossero contemporaneamente reclinati verso terra aveva già, in una frazione di secondo, racchiuso tutti i comuni sentimenti, i giudizi concordi, i bei ricordi che avremmo potuto riportare se avessimo avuto il coraggio di parlare della persona che era il “mito” di Giuseppe.
Sì, perché, Nicola Calipari per Giuseppe era un “mito”.
Più di una volta, da quando sono tornato alla Squadra mobile di Roma come dirigente, questo ispettore, oggi esperto e insostituibile, cresciuto da giovane agente nella sezione “reati contro il patrimonio”, diretta da Nicola Calipari nel lontano 1990, aveva ricordato il funzionario con cui aveva lavorato definendolo scherzosamente il suo “mito”.

Ricordo, in particolare, che lo aveva menzionato con questo appellativo carico di significati qualche mese fa, quando, rinunciando a una sua precedente domanda di trasferimento dalla Squadra mobile, mi precisò che aveva ponderato una sua possibile uscita da questo ufficio alcuni anni or sono proprio consigliandosi con Nicola Calipari, all’epoca dirigente dell’Ufficio immigrazione.
Nella sua brillante ironia, che spesso viene dispensata dalla sua personalità cristallina e intelligente, Giuseppe intendeva racchiudere in questa parola positiva e pregnante un insieme di giudizi sul funzionario che lo aveva cresciuto professionalmente, che lo aveva seguito come un fratello maggiore anche quando gli altri prestigiosi incarichi avevano portato Nicola Calipari in uffici diversi dalla Squadra mobile di Roma.

Questo carico di sentimenti che Giuseppe ha sempre serbato nei confronti del suo vecchio capo, l’altissima stima che manteneva inalterata per l’oculata ed esperta dirigenza, la profonda considerazione per il fascino del carisma mostrato in anni di lavoro nello stesso ufficio operativo, riassunti nella semplice, sintetica e significativa identificazione nel termine “mito”, rappresentavano, attraverso il giovane ispettore, la figura pregnante di Nicola Calipari, quale poliziotto di razza, fine dirigente, professionista serio, uomo intelligente, bellissima figura umana.

Prima di lasciarci da eroe, la sintesi di questi giudizi e di altri positivi apprezzamenti già veniva riferita al funzionario di polizia Nicola Calipari da parte di tutti coloro che hanno avuto la fortuna di lavorare con lui nei quasi venticinque anni che ha percorso nella Polizia di Stato, tra i collaboratori, i suoi colleghi (sono fiero di esserci anch’io), i suoi superiori, la dirigenza dell’Amministrazione. E non solo: negli ambienti esterni, i tanti magistrati con cui ha operato, gli appartenenti alle altre forze di polizia che hanno avuto modo di collaborare con lui, i numerosi giornalisti che hanno registrato i suoi successi professionali, gli enti, le associazioni e le persone con cui si è trovato a intessere le più disparate relazioni connesse al suo lavoro. Infine tutti coloro ai quali ha potuto fornire una qualificata, brillante, educata immagine di funzionario della Polizia di Stato e di servitore dello Stato.

Non era necessario che Nicola morisse a Baghdad per essere apprezzato, elogiato e amato. Chi lo conosceva non aveva bisogno di questa tragedia, non serviva il suo sacrificio per essere valutato uomo “fuori dal comune”. Qualcuno vorrà sottolineare la traccia indelebile e il fulgido esempio che questo eroe lascerà come testamento per tanti. Ma noi egoisticamente avremmo voluto tenerlo ancora su questa terra, anche se non da eroe, ci bastava come “mito”.
Anche perché Nicola Calipari non si atteggiava a eroe, non gli sarebbe piaciuto identificarsi con un eroe, era un uomo con i piedi per terra, moderato nelle espressioni, ponderato nell’azione, cauto e riflessivo nelle decisioni, fine negli atteggiamenti. Ma era un uomo, con i suoi limiti e le sue ambizioni. Poteva permetterselo. E lo ha dimostrato nell’ultimo gesto. 

*Dirigente della Squadra mobile di Roma
01/04/2005